L’Italia è fuori dalla recessione, l’area euro non la rischia più, ma restano tante tessere da mettere a posto nel puzzle di una ripresa ancora illeggibile. È come se gli stessi italiani che hanno trovato un lavoro in questo ultimo mese o dall’inizio dell’anno non credessero ai propri occhi.
Neanche un contratto a tempo indeterminato ha riportato in loro la voglia di fare acquisti e guardare con più fiducia al proprio futuro. E neanche un aumento di occupati che ne ha riportato il numero quasi ai livelli di quando debuttava l’attuale governo, undici mesi fa, ha impedito a decine di miglia di italiani di sparire dalla forza lavoro: non più occupati, né più in cerca di occupazione. Semplicemente spariti, assenti. Non può esserci dubbio che le notizie portate ieri dall’Eurostat e dall’Istat, gli istituti statistici della Commissione Ue e di Roma, sono sorprendentemente positive. Molti si aspettavano che con il 2019 l’Italia sarebbe uscita dalla recessione, ma non con un rimbalzo dello 0,2% rispetto alla fine dell’anno scorso: è la metà della media dell’area euro, un terzo meno della Francia, poco più di un terzo rispetto alla Spagna — certo — però dall’inizio dell’anno scorso il Paese non aveva mai raggiunto questa velocità di crociera. Ed era da un anno che non aggiungeva così tanti occupati al suo sistema produttivo, più 60 mila in un mese solo. Purtroppo però le certezze finiscono qua, perché niente è ancora consolidato in questo tentativo di ritrovare la strada di un po’ di ripresa. Nelle statistiche sfondate ieri, gli enigmi da sciogliere per il momento restano più numerosi delle risposte già pronte. Un rompicapo è senz’altro l’andamento in due direzioni opposte dell’occupazione (che risale) e della fiducia dei consumatori (che per ora continua a scendere). I segnali più recenti dal mondo del lavoro sono chiaramente buoni, dopo una perdita di 120 mila posti coincisa con i primi mesi del governo giallo-verde fino a dicembre. Tuttora gli occupati restano sotto i livelli di maggio scorso, ma i 60 mila che si sono aggiunti solo a marzo sembrano averlo fatto nel modo migliore: concentrati molto più fra i nuovi dipendenti a tempo indeterminato (più 44 mila occupati) che fra quelli a termine (più duemila); concentrati nelle fasce dei giovanissimi (più 51 mila fino ai 24 anni), dei giovani (più 18 mila fra i 25 e i 34 anni), che negli adulti (solo più quattromila fra i 35 e il 49 anni), mentre fra i più che cinquantenni si registrano perdite di posti (meno 14 mila). Alzano poi il capo gli autonomi forse incoraggiati dal nuovo sistema di «flat tax» al 15%, perché nei primi tre mesi dell’anno sono 47 mila in più. Anche la distribuzione dei nuovi posti fra uomini e donne sembra divisa quasi equamente a metà.
Poi però iniziano i rebus dell’economia più debole d’Europa, rimasta quasi ferma nell’ultimo anno. Il più vistoso riguarda il fatto che questo aumento di posti apparentemente buoni, non precari, per ora non produce ottimismo fra le famiglie. Mese dopo mese la fiducia dei consumatori continua a scendere — anche in aprile — e ormai è ai minimi da due anni. È come se dietro i nuovi contratti non ci fossero tante ore di lavoro quante ne servirebbero a molti italiani per portare a casa un salario da tempo pieno. O come se agli italiani non sfuggisse che la finanza pubblica andrà comunque riequilibrata fra pochi mesi con uno sforzo di decine di miliardi da parte loro.
Non mancano poi altri rompicapi, nell’uscita dalla recessione. Uno emerge dal restringersi della popolazione potenzialmente produttiva, anche quando si aprono nuove opportunità di trovare impiego. L’Istat mostra che a marzo la forza-lavoro (cioè la massa di coloro che un posto ce l’hanno, più quelli che lo cercano) è diminuita di 32 mila persone. Sono 32 mila in più che non hanno un posto, né sono disposti ad accettarne uno. Poiché l’istantanea è presa in un momento in cui le pensioni anticipate di «quota 100» non erano ancora partite, è forse un segno dell’invecchiamento della popolazione; o la spia che ci sono ancora molti sfiduciati e ormai hanno gettato la spugna. Fa riflettere in particolare che gran parte di queste «forze di lavoro» scomparse dai dati siano fra le donne.
Infine l’enigma più profondo, sui motori che hanno portato l’Italia fuori dalla recessione. Dove sono? L’Istat parla di «contributo negativo della componente nazionale» — consumi, investimenti e scorte di magazzino — e di «apporto positivo della componente estera netta», come se fosse stato l’export a tirare il Paese fuori dalle secche. Ma, nota Loredana Federico di Unicredit, oggi il «made in Italy» non va più bene come prima. A marzo le vendite di beni fuori dall’Europa sono addirittura sotto i livelli di un anno fa, con veri e propri crolli segnati in Russia, Turchia e Golfo. Di certo funziona la produzione industriale per beni di consumo, anche se gli italiani restano cauti nell’aprire il portafoglio. Se dunque la recessione è andata via, l’incertezza ancora no. E farà muovere l’economia italiana nel 2019 come chi si trova al buio: a passi piccoli e lenti.