«Non conosco nessuno che stia investendo». Edoardo Nesi, scrittore pratese, ha creato la figura di Ivo Barrocciai che ritorna più volte nei suoi libri e gli serve per raccontare i fasti ma anche la solitudine del mestiere di imprenditore. «Quelli che conoscevo io, a fine serata restavano a guardare i loro macchinari con un senso di orgoglio, vedevano una costruzione che funzionava grazie ma anche senza di loro. Ecco questa figura si va perdendo. C’era la sensazione di contribuire a un sistema sociale e oggi non più». Secondo Nesi l’imprenditore medio nella stagione del populismo vive dentro un’incertezza totale, ha persino paura di dire come faceva una volta, «noi si sostiene 50 famiglie». Ma come si è originata questa situazione? La spiegazione più semplice sta nella grande discontinuità rappresentata dal populismo e dall’arrivo di Luigi Di Maio sulla doppia poltrona dello Sviluppo economico e del Lavoro. Se i 5 Stelle avevano creato le premesse del loro straordinario successo sostanzialmente sull’antipolitica e sulla critica violenta della Casta, con lo sbarco al governo la ricerca del capro espiatorio si è spostata e nel mirino sono entrati gli imprenditori. Come se il populismo di governo avesse bisogno di tanti Malaussène (il personaggio frutto della fantasia di Daniel Pennac, ndr) e li abbia trovati. Certo il crollo del ponte Morandi ha in qualche modo amplificato quest’operazione e le feroci polemiche contro la società Autostrade sono state un format che ha visto varie repliche. L’ultima ha avuto come bersaglio le agenzie private del lavoro inchiodate al muro con l’accusa di incarnare «il nuovo caporalato». La parola chiave del racconto di Di Maio è diventata «prenditori» per indicare un imprenditore che sfrutta, vuole delocalizzare, famelico di incentivi pubblici. E comunque visto che l’offensiva del bi-ministro è iniziata con il tavolo dei rider possiamo già stilare un primo bilancio: non si è concluso niente di concreto per regolare prestazioni e diritti dei ciclofattorini e nel frattempo però uno dei maggiori player del settore, la tedesca Foodora, ha fatto quello che aveva minacciato: ha venduto e se ne è andata dall’Italia.
Campagne politiche a parte, qual è l’immagine degli uomini che fanno impresa? L’ultima ricerca di un certo peso risale al 2015 e l’ha condotta Ipsos per Confindustria. Gli italiani catalogano gli industriali ad alta visibilità mediatica nella voce «manager», appaiono ricchi e di successo, gran frequentatori di giornali e di talk show. L’imprenditore è invece «uno di noi», vive nella porta accanto, è una figura realmente vicina alla popolazione, legata al territorio e alla quotidianità e la spiegazione è semplice: 9/10 del sistema produttivo italiano è costituito da imprese inferiori ai 10 dipendenti. Quell’indagine però già segnalava come per effetto della Grande Crisi il consenso verso gli imprenditori stesse calando, il 45% pensava che si «fossero involuti», una percentuale superiore all’analogo giudizio espresso dai tedeschi (33%) e dagli americani (26,1%). «L’imprenditore appare una figura in affanno, la sua posizione privilegiata di motore dell’economia è messa in discussione sia per gli effetti della crisi sia per la carente valorizzazione da parte delle istituzioni» scriveva Nando Pagnoncelli. E annotava come gli italiani sottovalutassero l’importanza del comparto industriale: solo un terzo della popolazione citava l’Italia tra i tre maggiori Paesi produttori europei. Si metteva in evidenza così una contraddizione lacerante: un Paese con un numero alto di imprenditori che ha però una conoscenza approssimativa del peso che rappresentano nell’economia nazionale.
Il populismo si è abilmente inserito in questa contraddizione e l’ha sfruttata nella comunicazione d’ogni giorno, l’ha resa pane quotidiano. Via via però la critica si è allargata non solo a «questi imprenditori» ma alla funzione stessa del fare impresa. Come sostiene Nesi, i datori di lavoro «non sono nemmeno i migliori, i vincitori di un ideale processo di selezione che li ha dichiarati i più adatti a intraprendere: sono, molto semplicemente, quelli che ci hanno provato e ai quali è andata bene».
È legittimo quindi chiedersi se gli italiani si siano stancati persino «di provarci». Per cercare di dare una risposta si possono consultare i dati Unioncamere sulla natalità delle imprese. Nel terzo trimestre del ’18 sono spuntate 64.211 imprese, ben 5.500 in meno rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno e se ne sono chiuse 51.758, circa 2 mila in più del terzo trimestre 2017. Quindi un calo di motivazioni c’è. Se andiamo a vedere il dettaglio vediamo che calano le imprese artigiane e quelle manifatturiere e aumentano di molto quelle legate all’alloggio e alla ristorazione. Anche in campo giovanile si segnala un progressivo calo di iscrizioni di giovani imprese che ha assottigliato lo stock delle attività produttive degli under 35. Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere, però avverte: «La riduzione della natalità non è congiunturale, dura da anni anche se a ritmo lento. La crisi ha portato con sé una maggiore attenzione ai rischi, analisi più puntuali del mercato, dei finanziamenti e delle tecnologie». Ma, aggiunge, tutto ciò non è legato alla nuova stagione politica, «penso che incidano di più la bassa demografia e la fuga all’estero dei giovani talentuosi e più propensi all’avventura».
Possiamo quindi dire che il populismo non ha forgiato ex novo un orientamento antagonista nei confronti dell’impresa ma in qualche maniera ha cavalcato un’onda (negativa) proveniente dalla Grande Crisi? Un sondaggio Swg lo confermerebbe: aveva segnalato qualche mese fa, interrogando un campione di 1.100 maggiorenni, come l’impiegato pubblico con il 28% fosse ridiventato il lavoro sognato dagli italiani con un’impennata di 13 punti rispetto a soli due anni prima. E l’economista Enzo Rullani sostiene che è il concetto di rischio oggi ad essere messo in discussione e proprio quando sarebbe necessario investire e innovare. «È paradossale ma adesso avremmo bisogno di una socializzazione dello spirito imprenditoriale e anche i lavoratori e i territori dovrebbero in qualche modo partecipare. Tutti dovrebbero diventare intraprendenti». Agli imprenditori si deve imputare non di continuare a rischiare ma «di non essere mai diventati una borghesia innovatrice e di aver lavorato ognuno per sé». Rullani pensa che il populismo sbagli a rimettere in campo lo Stato come soggetto che risolve la disuguaglianza risarcendo i disoccupati, «il pubblico deve promuovere la mobilità sociale a monte credendo nella scuola». La caduta dello spirito imprenditoriale è una piccola tragedia anche perché stiamo assistendo alla trasformazione delle grandi organizzazioni: sempre più snelle, con poco personale, avranno invece attorno a sé una galassia di collaboratori chiamati a condividere il rischio. È proprio questa trasformazione che sembra nel mirino del populismo che invece sogna nostalgicamente una sorta di ritorno al passato, al fordismo in un Paese solo e allo Stato che risarcisce i cittadini dei torti subiti dal mercato e dagli imprenditori.
Gli industriali questi slittamenti della cultura politica dominante li hanno captati e subìti con crescente disagio. Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia ha sintetizzato lo stato d’animo della categoria evocando il Titanic «siamo come delle vedette sulla tolda della nave mentre tutti sono in sala ristorante a godersi la cena». E il collega Luciano Vescovi di Vicenza ha rincarato la dose denunciando che il governo «sta giocando sulla nostra pelle». Ha sorpreso tutti poi che il presidente Carlo Bonomi nell’assemblea di Assolombarda abbia voluto ricordare «le 700 vite spezzate» di imprenditori caduti durante gli anni della recessione, ammettendo che le associazioni avrebbero dovuto fare di più, farli sentire parte di una comunità. Incrociando le dita oggi non si segnalano recrudescenze di questo tipo ma la solitudine e la sindrome di Malaussène si fanno sentire pesantemente in un momento in cui fare l’imprenditore è oggettivamente più difficile di ieri. Il sociologo Daniele Marini nei suoi studi ha individuato proprio il 2008 come lo spartiacque e ha sottolineato tre fattori che fanno la differenza tra ieri e oggi. L’aumentata competizione sul mercato, frenetico e volatile, incerto e globale che rende più incerta l’esperienza imprenditoriale. La necessità di avere una preparazione professionale di gran lunga più elevata rispetto agli anni passati. E infine la concorrenza sleale di chi non rispetta le regole. Aggiungiamo l’ostilità del populismo di governo «e si crea il cortocircuito tra un sistema produttivo costretto a correre e provvedimenti che vanno nella direzione opposta». Del resto, aggiunge Marini, basta rileggere il contratto di governo, «l’impronta culturale è lontana dal mondo della produzione, parole come artigiano, operaio, impresa non ricorrono quasi mai». Non c’è da stupirsi quindi se gli imprenditori si sentano soli. «Anche la Lega li sta deludendo, le avevano assegnato un mandato di rappresentanza ma si vedono non corrisposti».