Per “I leoni di Sicilia” è passato uno spazio temporale lungo tra l’idea e l’acquisto; tra l’acquisto e la lettura. C’era qualcosa che non mi convinceva, mi teneva lontano. Ma l’ipotesi di un libro che poteva avvicinarsi a “I Buddenbrook” di Thomas Mann, era affascinante. In Italia un romanzo come quello scritto dallo scrittore tedesco non si è mai neppure paventato. Tra i due c’erano facili assonanze. “I Buddenbrook” racconta la progressiva rovina di un’agiata famiglia della borghesia mercantile di Lubecca nel corso di quattro generazioni, negli anni dal 1835 al 1877. “I leoni di Sicilia” descrive la nascita della dinastia dei Florio dal 1799 al 1868. Tempi, famiglie, un fil rouge che li lega. “I leoni di Sicilia” è un libro che ha una storia importante che si interseca con le vicende dell’isola tra il dominio dei Borbone, l’incursione di Napoleone nel 1808, i moti reazionari del 1848 e l’arrivo di Garibaldi nel 1860. Da Bagnara Calabra i Fiorio partono e costruiscono un vero e proprio impero che va dal vino marsala alla creazione di una flotta mercantile. Fatica, sudore e spregiudicatezza fanno di questa famiglia la vera continuità dell”800 siciliano. Dentro alla trama storica di un riscatto inaspettato, amorose vicende si insinuano come nelle migliori tradizioni. Ma “I leoni di Sicilia” non riesce a decollare. Rimane un buon romanzo senza trovare lo spunto per avvicinarsi a “I Buddenbrook”. Forse quello a cui manca è una scrittura evocativa. Quella della Auci è una penna “semplice” in molti passaggi. La ricercatezza talvolta esonda di aggettivi e rischia il barocco stilistico. Spesso però offre una struttura che rende il lettore migliore di come era prima di leggere quel romanzo. Qui, a parte l’inserimento del dialetto siciliano in alcune frasi e di qualche proverbio, non si va oltre. Per carità, lungi da volere un’ampollosità complessiva, ma un romanzo storico dovrebbe portare con sé anche una capacità di raccontare con le parole, oltre che con i fatti, l’importanza del tempo.