Il premier Giuseppe Conte e ancor di più il ministro dell’Economia Giovanni Tria sanno benissimo che le previsioni di incremento del Pil, da loro inviate a Bruxelles per giustificare l’allargamento del deficit fino al 2,4%, sono irrealistiche. Dopo la netta presa di posizione dell’ufficio parlamentare di Bilancio ancora ieri il bollettino di Ref Ricerche metteva in fila i motivi per i quali quell’indicazione non si avvererà. Detto che gli eventuali effetti del reddito di cittadinanza e degli investimenti pubblici si faranno sentire solo da metà del 2019, la scelta di attuare una politica espansiva è destinata, comunque, a infrangersi sugli scogli non solo a causa di un andamento decisamente rallentato del commercio internazionale, ma anche per le contraddizioni insite nella manovra. Gli effetti sulla domanda aggregata, secondo Ref, saranno «ridimensionati o annullati del tutto dallo spread» attraverso due modalità: il peggioramento dell’erogazione del credito e l’aumento dei tassi di interesse. Tria ne deve essere cosciente perché agli inizi di settembre a Cernobbio lui stesso, e non un sosia, aveva sostenuto il medesimo concetto: «È inutile cercare 2 o 3 miliardi nel bilancio dello Stato per finanziare le riforme, se ne perdiamo 3 o 4 sui mercati finanziari a causa del rialzo dello spread».
Siamo, dunque, a un passaggio delicato delle nostre relazioni con Bruxelles, a una mutazione del linguaggio politico che usiamo nei confronti della Ue. Quando pensiamo di giovarci di previsioni artificiose sulla crescita e (anche) sull’inflazione, oltrepassiamo il Rubicone: dall’euroscetticisimo transitiamo nell’euroslealtà.
Per carità, sappiamo benissimo che la storia della costruzione europea è lastricata di mezze verità, a farla da padrona nei vertici e nelle sedute degli sherpa sovente è stata l’ipocrisia. Un velo che serviva in qualche maniera a mitigare le contraddizioni, a conciliare i crudi interessi nazionali con la narrazione europeista. Quante ipocrisie sono state usate per coprire l’esistenza di un nocciolo duro franco-tedesco, quante ancora per sostenere a parole la priorità del fronte mediterraneo e poi spostare risorse quasi sempre a Est e, infine, quanta ipocrisia c’è stata nella scelta di validare la corsa di Amsterdam ad aggiudicarsi l’Ema senza che avesse nemmeno la sede per ospitarla. Si può legittimamente sostenere che proprio queste mezze verità abbiano contribuito a segnare un solco tra le istituzioni sovranazionali e i cittadini, ma comunque il passaggio al regime della slealtà quel velo lo squarcia. Ed è un esito che pesa. Non sappiamo ancora come andrà avanti il negoziato con Bruxelles ma la scelta di Roma di sfornare cifre che non sono realistiche e che sono contestate dai principali istituti di ricerca (il Codacons denuncerà anche loro?) ci fa transitare in un nuovo territorio, in una non-Europa. Nell’attesa e nella speranza di infrangere il sogno europeo, le forze di maggioranza già si applicano all’obiettivo.
Però nonostante l’ampio consenso di cui godono la Lega e i 5 Stelle, i sondaggi ci dicono che gli italiani non vogliono uscire né dalla Ue né dall’euro (il 61% secondo una rilevazione Ixè resa nota ieri). Non sono soddisfatti delle politiche comunitarie di questi anni ma sono rimasti leali. Loro. Ed è a questo sentimento che forse bisognerebbe parlare e purtroppo nessuno ne sembra capace. Non contestiamo il dovere delle autorità europee di chiedere a Roma il rispetto delle regole, contestiamo che sia l’unico messaggio che l’Europa sta mandando ai cittadini italiani. Mancano ancora molti mesi alle elezioni europee ma sembra quasi che ci si sia arresi all’ineluttabile con largo anticipo.