Da trenta anni sulla necessità degli investimenti ferroviari il dibattito è furioso. Ancora prima che arrivassero Danilo Toninelli e Marco Ponti al Ministero delle Infrastrutture con le analisi costi-benefici (e un approccio molto severo verso le ferrovie) il tema è se valga la pena sostenere o meno gli alti costi degli investimenti ferroviari per trasportare passeggeri e merci o, se si preferisce, quale sia la quantità di passeggeri e merci che giustifichi la spesa pubblica. I politici e i territori reclamano binari e collegamenti nella convinzione gli uni che gli appalti portino consenso, gli altri che le infrastrutture generino sviluppo. E non hanno torto: le autostrade degli anni 50 e la prima stagione della Cassa per il Mezzogiorno sono lì a dimostrarlo. Così come l’Alta velocità oggi.
A parte che bisognerebbe mettere almeno altre tre persone nel Pantheon di chi ha fatto grande l’Alta velocità (Pierluigi Bersani per la liberalizzazione dei treni veloci, Giuseppe Sciarrone per aver inventato Italo e Andrea Camanzi per aver dato all’Av un sistema regolatorio che tutto il mondo viene a studiare) e che la missione di tutti i successori è anzitutto preservare il patrimonio di credibilità del sistema (bisognerà valutare gli effetti dell’incidente di Lodi), oggi il tema centrale è estendere l’Alta velocità a quella parte d’Italia che ne è esclusa. Come confermano gli studi dell’Università Federico II di Napoli e di Ennio Cascetta (si veda Il Sole 24 Ore del 30 gennaio scorso), le città «no Tav», che cioè sono fuori del circuito Tav, crescono meno dei quelle che stanno dentro. Naturale quindi che amministratori locali e imprese chiedano a gran voce – oggi più di ieri – di rientrarvi quanto prima o almeno di essere agganciate a quel circuito virtuoso. Non basta, in molti casi, qualche Pendolino vestito da Frecciargento o qualche autobus di collegamento con le stazioni Av.
Oggi l’Alta velocità fa 40 milioni di passeggeri l’anno, più di sei volte dei 6,5 milioni con cui era partita nel 2009. Ci sono dieci città – oltre le tre venete (Verona, Padova, Venezia) per cui i progetti sono in corso – che potrebbero portare al sistema dell’Alta velocità 10-12 milioni di passeggeri annui aggiuntivi: Reggio Calabria, Bari, Lecce, Palermo, Catania, Messina, Ancona, Pescara, Genova e Trieste per cui sono reclamati a gran voce e avviati progetti di velocizzazione della rete. Non linee ad alta velocità a 350 chilometri orari, sia chiaro, ma un mix di interventi infrastrutturali (raddoppi) e tecnologici (controllo e fluidificazione del traffico). In tutto il costo si aggira intorno ai 27 miliardi, di cui il 60-70% già disponibili e spesso in corso, ma bisogna potenizare subito anche servizi ferroviari e materiale rotabile, ove possibile. L’obiettivo è tagliare i tempi di percorrenza e aumentare la capacità di transito di treni. Per Bari-Napoli si passa da oltre tre ore e mezza a poco più di due con una spesa di 6 miliardi, tutta in appalto quest’anno. In Sicilia dove la nuova rete è tutta da costruire si abbatteranno i tempi della Catania-Palermo (da 110 a 60 minuti) e sulla Catania-Messina (da 70 a 45 minuti) con una spesa di sei miliardi. Da Genova a Milano con i 6,4 miliardi il terzo valico ridurrà entro il 2023 i tempi del 50% (da un’ora e mezza a un’ora) ma è improprio accollare il costo tutto a un disegno di collegamento passeggeri visto che la priorità in quel caso è sulle merci. Sull’Adriatica con tecnologia e qualche raddoppio si risparmiano 40 minuti da Bologna a Bari e un’ora fino a Lecce. Da Venezia a Trieste, abbandonata la linea Av della discordia, tutti d’accordo su un intervento di velocizzazione da 1,8 miliardi ora al via per abbattere i tempi da due ore a una. Sulla Salerno-Reggio Calabria, opera rilanciata dal piano Sud appena presentato, servono tre miliardi ma al momento ci sono interventi e risorse per 780 milioni.
Su altre linee, soprattutto le trasversali per Ancona o Pescara, se è vero che bucare gli Appennini avrebbe un costo insostenibile, bisogna fare un grande sforzo per fludificare, eliminare colli di bottiglia qualche curva di troppo sul tracciato e usare da subito il miglior materiale rotabile possibile per accorciare i tempi e molta tecnologia.
L’Alta velocità di rete (Avr) è la scelta razionale e di buon senso adottata con «Connettere l’Italia» dalla storica riprogrammazione a 360 gradi fatta nel 2017 da Graziano Delrio ministro delle Infrastrutture con alla guida della struttura tecnica di missione prima Ennio Cascetta e poi Giuseppe Catalano, ora rientrato nella stessa posizione-chiave al ministero, dopo la parentesi di Toninelli, per dare continuità a quelle politiche. La scelta dell’Avr – in mezzo fra non fare nulla perché troppo costoso e promettere investimenti senza freno che poi non vengono realizzati per i vincoli di bilancio – ha ridimensionato o cancellato con la project review molte opere faraoniche in favore di «opere utili, sostenibili e condivise», scelte per i servizi ferroviari che sapranno offrire. In questo modo si prova a ricucire l’Italia superando la ferita fra Tav e No Tav, a patto che si superi la burocrazia (tre anni per approvare il contratto di programma Fs è un’assurdità) e che sul lato del servizio Frecce e Italo facciamo lo sforzo adeguato che loro compete, considerando non solo i passeggeri potenziali attuali ma anche lo sforzo di creare, con le leve aziendali, nuovo traffico.
Proprio Bari è un esempio significativo delle promesse fatte e poi non mantenute: Ntv aveva annunciato di valutare un servizio che non ha mai avviato, mentre Trenitalia solo a marzo, dopo anni di promesse, avvierà un treno diretto, una Freccia verso Napoli, superando scali intermedi e orari interminabili.