L’innesco dell’ultima scommessa populista, se mai ce ne fosse stato bisogno, era arrivato all’inizio della settimana da Parigi. Il bilancio del presidente Emmanuel Macron è uscito presentando un aumento del deficit per l’anno prossimo al 2,8% del prodotto lordo (Pil). A Roma i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini devono essersi chiesti perché allora l’Italia no, se la Francia sì; perché in Europa non dovrebbe essere permesso al loro governo ciò che verosimilmente si concederà a quello francese. Avessero guardato meglio, Salvini e Di Maio avrebbero notato alcune differenze di fondo fra i due casi: il bilancio di Parigi contiene un grosso rimborso una tantum di un credito d’imposta ai francesi che senz’altro torna utile a Macron nell’anno delle elezioni europee, ma poi sparirà; senza quello lo zoccolo duro del deficit transalpino scende comunque sotto il 2%, in un Paese con meno debito pubblico, più crescita, tassi d’interessi molto più bassi e molto più impegno dell’Italia nell’innovare e modernizzare l’economia.
Cercare di seguire Parigi alzando il costo delle pensioni e dei sussidi — in permanenza, non per un anno — rischia di rivelarsi una dolorosa illusione. È probabile però che il calcolo dei leader di Lega e 5 Stelle riguardi più la politica che la finanza pubblica. Prevedono che la Commissione Ue lascerà passare il bilancio di Macron ma respingerà il loro, invitandoli a riscriverlo in linea con le regole. Per Salvini e Di Maio diventa così irresistibile la tentazione di presentarsi alle Europee brandendo accuse a Bruxelles, dipingendola come complice di Parigi e iniqua con l’Italia; forte con loro nuovi insurrezionisti — secondo la loro versione — ma debole coi forti dell’establishment europeo. Il vittimismo nei rapporti con l’Europa del resto esercita sempre un richiamo fra gli elettori: lo aveva praticato anche Matteo Renzi quando era il Pd a governare, benché dalla Conferenza di Versailles del 1918 in poi all’Italia non abbia mai portato fortuna.
La sostanza adesso, se si conferma la struttura di bilancio di ieri, è che tutto diventa più difficile. Visto il processo decisionale imprevedibile, la sfida sfrontata dei politici alle competenze tecniche presenti nelle istituzioni e soprattutto dato il peggioramento del deficit, è inevitabile che le agenzie di rating reagiscano. In ottobre S&P o Moody’s possono declassare il debito italiano a un passo o sotto il livello «spazzatura». Gli investitori di ogni tipo, dai fondi newyorkesi che comprano debito pubblico alle piccole imprese dei distretti, faranno un passo indietro. Il sistema finanziario e l’intera economia rischiano di entrare in tensione. Hanno del resto perso la loro polizza assicurativa, Giovanni Tria, e sarà così anche se davvero il ministro dell’Economia restasse al suo posto. Non è colpa sua, ha lottato fino all’ultimo con coraggio. Ma per i mercati, per gli altri governi e per i milioni di italiani che tengono alla stabilità, da ieri la parola di Tria vale inevitabilmente di meno.