Le prime avvisaglie della legge di Bilancio che verrà stanno ingenerando tra cittadini, imprese e risparmiatori, un sentimento racchiudibile nel titolo di un celebre libro: «Io speriamo che me la cavo». I segnali, gli annunci e i dietrofront repentini da parte di ministri e politici della maggioranza stanno facendo prevalere la confusione rispetto a una chiara direzione di marcia.
L’ipotesi, poi negata, di voler mettere mano a quella che Lega e Cinque Stelle avevano più volte definito una mancia di Renzi, gli 80 euro a undici milioni di italiani, è l’episodio più recente. E fa seguito all’Iva che a giorni alterni aumenta o resta invariata. Sulle pensioni, che a effetto sono state chiamate «d’oro», ecco i tagli annunciati, poi rinviati e poi riannunciati, per di più con soglie variabili secondo la giornata.
Sono esempi di comportamenti che hanno alla base due peccati originali. Il primo è continuare a voler negare che le risorse siano scarse.
A nche se, come ha detto ieri il vicepremier Luigi Di Maio, «non si vuole tirare la coperta da una parte per scoprire l’altra», resta il fatto che la coperta è corta. Con un’economia che potrebbe crescere ancora meno secondo le previsioni dello stesso governo, di denari ce ne saranno ancora meno. E alcune scelte potrebbero contribuire alla loro contrazione.
Le coperture dei provvedimenti non sono un concetto punitivo di chissà chi, ma il ragionamento che fa qualsiasi buon padre o madre di famiglia che conosce perfettamente quanti soldi entrano ogni mese e quindi quanti ne possono uscire. Lo Stato italiano da decenni spende più di quello che incassa con le tasse. E per farlo si indebita, anche perché l’altra strada sarebbe aumentare le imposte.
Non si illuda chi pensa di trovare spazio chiedendo maggiore flessibilità in Europa. Più deficit significa più debito. Nostro debito. Dall’Europa non arrivano soldi. Non è una fissazione quella del ministro Giovanni Tria di non abbandonare il sentiero che porta alla riduzione dell’indebitamento: è la semplice constatazione che o si fa così o l’Italia non riuscirà mai a lasciarsi alle spalle questa condizione di incertezza.
Senza dimenticare che andare verso la riduzione del debito è condizione necessaria per fare fronte ai nostri impegni. Può non farci piacere, ma se si sono chiesti in prestito soldi per mandare avanti il Paese (che significa pagare la Sanità, le pensioni, le scuole e via dicendo), non si può pensare di non restituirli: a chiunque siano stati chiesti, risparmiatori e investitori italiani (per la maggior parte), o esteri (per un terzo).
L’ansia di essere riconosciuti come i veri artefici del cambiamento che permea molta della nuova politica non deve avere come effetto il disorientamento del Paese. E il cambiamento oltre a essere effettivo e non solo manifestato a parole, non può essere fine a se stesso. Deve avere anch’esso un indirizzo, un obiettivo.
Arriviamo così al secondo peccato originale. Questa situazione di incertezza può diventare incomprensione tra maggioranza e Paese. Molto dipende da quel contratto di governo al quale ogni esponente dell’alleanza legastellata si richiama di fronte alle spesso evidenti contraddizioni tra una forza e l’altra della occasionale coalizione. Contratto i cui temi sono stati non casualmente elencati in ordine alfabetico e non di priorità.
La semplice giustapposizione di problemi con supposte soluzioni che compongono il testo che ha portato il primo giugno scorso alla nascita del governo, di per sé non è un indirizzo. Un conto sono i singoli atti, un altro quello che da loro discende o che permette di capire sulle intenzioni dei ministri.
Se Di Maio deve arrivare a dire che si è convinto sulla flat tax dopo una campagna elettorale condotta su altri versanti, c’è un problema di direzione. Se si vara un decreto Dignità che oggettivamente complica la vita alle aziende e in qualche caso aumenta loro le tasse (vedi sui contratti a termine), non si può sperare che le imprese vedano in quella misura un provvedimento amico. Se la soluzione alle crisi aziendali, dall’Ilva all’Alitalia, è l’intervento dello Stato, non si può pensare che il faro della maggioranza sia più concorrenza, meno monopoli, più privato.
Anche solo sul Fisco le domande si accavallano. Per tornare agli 80 euro, quale sarà il loro destino? Resteranno come dice Matteo Salvini con Di Maio, o si interverrà anche su questa misura per arrivare a un riordino complessivo come vuole Tria? E chi potrà sperare di essere avvantaggiato e chi penalizzato nelle due diverse opzioni? A questo serve l’indirizzo di governo, a dare orientamenti. Che nessuno possa perderci è ben poco credibile. E la credibilità in politica è tutto .