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In Giappone, lo zaru è una specie di scolapasta in bambù, molto utilizzato nella cucina locale. Ma è anche l’appellativo che colloquialmente viene dato dai giapponesi a chi è in grado di bere alcool senza ubriacarsi dopo un solo bicchiere. Il ragionamento fila più o meno come segue: se si continua a mettere l’acqua in un contenitore normale, naturalmente arriva un momento in cui non si può più aggiungerne altra, mentre utilizzando uno zaru si può mettere acqua all’infinito; dunque, la persona zaru può bere alcool ad libitum.
Questa piccola perla di saggezza nipponica non è però casuale: riflette un caso di alterazione genetica che ha un impatto importante sulla vita di tutti i giorni in Estremo Oriente. Moltissimi asiatici presentano infatti una mutazione di un gene che sostanzialmente inibisce l’attività dell’enzima ALDH, l’aldeide deidrogenasi, di notevole importanza per un corretto metabolismo dell’alcool nel fegato: ecco perché non è raro osservare nei nostri amici giapponesi reazioni al bere che li fa apparire totalmente asfaltati dalla sbornia.
Questo tipo di meccanismi è ben noto in farmacologia, tanto che ci sono due branche di questa scienza – la farmacodinamica e la farmacocinetica – che studiano rispettivamente gli effetti biochimici e fisiologici dei farmaci sull’organismo e, dall’altra parte, gli effetti che i processi dell’organismo hanno sul farmaco stesso (assorbimento, distribuzione, metabolismo, eliminazione). E l’etnia – come nell’esempio dell’alcool – è sicuramente uno dei fattori che determina la spiccata variabilità nella risposta ai trattamenti terapeutici. Appare quindi paradossale che la maggior parte degli studi clinici effettuati sui farmaci prima della loro immissione sul mercato siano portati avanti su pazienti tendenzialmente caucasici, e che il via libera delle agenzie regolatrici – come la Food & DrugAdministration, negli Stati Uniti – avvenga sulla base di analisi statistiche (su poche migliaia di pazienti) che giustificano ipotesi di sicurezza ed efficacia dei nuovi farmaci senza tenere in considerazione specificità genetiche. Come direbbero i britannici, «one size fits all», ma così non dovrebbe essere!
La personalizzazione del trattamento terapeutico, in ambito farmacologico, è quindi ancora totalmente assente: siamo tutti diversi e ciascuno di noi restituisce risposte differenti ai farmaci che prende.Ciononostante, dosaggi, principi attivi utilizzati ed effetti indesiderati non tengono ancora in considerazione i nostri differenti profili genetici.Questo non avviene perché, almeno fino a poco tempo fa, risultava praticamente impossibile sequenziare, ovvero leggere, l’intero genoma umano di ciascuno di noi: sono stati infatti necessari più di dieci anni (dal 1990 al 2003) e investimenti per tre miliardi di dollari prima di riuscire a completare la mappatura dell’intero genoma, e solo recentemente si è riusciti a lavorare sul nostro DNA attraverso una biotecnologia chiamata CRISPR/Cas9 che permette di spezzare la sequenza a doppia elica del genoma in punti specifici e inserire al suo interno modifiche che con- sentono nuovi approcci terapeutici a malattie incurabili. In Cina, per esempio, il 28 ottobre del 2016 sono state iniettate in un paziente affetto da una forma molto aggressiva di cancro ai polmoni delle cellule, modificate attraverso la tecnologia CRISPR/Cas9, in cui è stata silenziata una determinata proteina che solitamente rallenta la risposta immunitaria del corpo rispetto al cancro. Si tratta di sperimentazioni avanzate, i cui risultati non sono ancora stati diffusi, ma è un primo passo importante, spinto dalle nuove tecnologie, verso la personalizzazione totale dei trattamenti terapeutici.
Nel 1965 Gordon Moore aveva previsto che un settore in particolare, quello dei semiconduttori, avrebbe subito un’accelerazione misurabile secondo la famosa (a posteriori) Legge di Moore: ovvero, il raddoppio annuale delle capacità di elaborazione dei microchip in parallelo a una riduzione della metà dei costi di produzione e delle dimensioni degli stessi microprocessori. La crescita repentina dell’industria informatica nei successivi cinquant’anni ha confermato quella fortunata intuizione. Oggi la genomica sta presentando caratteristiche altrettanto (se non più) promettenti, grazie alla convergenza di diverse tecnologie in ambito life science: nel 2002 per ottenere la sequenza dell’intero genoma umano era necessario spendere quasi cento milioni di dollari, oggi ne bastano mille e nei prossimi anni il costo tenderà a zero, come nel caso di molti prodotti del settore dell’informazione.
Il lavoro che si è fatto recentemente sul DNA è davvero comparabile alla rivoluzione portata avanti negli anni Sessanta nell’ambito dei semiconduttori. Comprendere il genoma umano, infatti, consentirà di migliorare gli strumenti di diagnosi, scegliere i migliori approcci terapeutici a seconda del profilo del paziente ed evitare, attraverso un opportuno trattamento, che mutazioni genetiche dannose generino patologie fortemente debilitanti. Paradossalmente, non è difficile immaginare un futuro non troppo lontano in cui i nostri cari vecchi classici sanitari in ceramica saranno tra le apparecchiature più utili delle nostre abitazioni: grazie a particolari software di interpretazione dei frammenti di DNA contenuti nelle nostre feci e urine, i WC casalinghi potranno offrire informazioni e consigli molto utili sulla nostra salute e sulla nostra dieta, senza bisogno di recarsi in un laboratorio di analisi. Inoltre, grazie alla capacità di lettura del nostro genoma, gli individui saranno in grado di assumere atteggiamenti e stili di vita proattivi per ridurre i rischi per la salute determinati da certe inclinazioni genetiche (come l’ipertensione, il diabete o altre patologie).
Ma la rivoluzione della genomica non si limita alla lettura e scrittura del DNA per la diagnosi e il trattamento di patologie. Uno dei più discussi e prolifici ricercatori in questo ambito, J. Craig Venter, fondatore tra le altre di Synthetic Genomics, sta lavorando infatti alla realizzazione di un Digital Biological Converter, ovvero una delle applicazioni più interessanti e curiose se si pensa alle possibilità di scrittura del DNA. Grazie anche al supporto del Dipartimento della Difesa americano – in particolare tramite l’agenzia DARPA, che si occupa di tecnologie di frontiera – Venter e il suo team hanno realizzato un prototipo in forma di una scatola, ovviamente collegata a un computer, che riceve sequenze di DNA attraverso la rete e che può sintetizzare proteine, virus e persino cellule viventi. Potrebbe produrre insulina da remoto previa prescrizione medica o fornire vaccini specifici durante epidemie che esplodono in luoghi difficilmente accessibili in tempi brevi (ma, ovviamente e necessariamente, raggiungibili via Internet).
Rimane infine la grande visione espressa da alcuni ricercatori, in particolare da Andrew Hessel di Autodesk: riuscire a ingegnerizzare un genoma umano completo entro il 2026. Dal punto di vista tecnologico, così com’è accaduto per lo Human Genome Project, l’avanzamento esponenziale delle tecnologie potrebbe aiutare a raggiungere l’ambizioso risultato; rimangono però le ovvie perplessità dal punto di vista etico: si vogliono creare esseri umani sintetici? Dei bambini senza genitori biologici? Il gruppo di scienziati dietro lo Human Genome Project-write, com’è stata chiamata l’iniziativa, afferma che l’intento principale, oltre agli aspetti puramente speculativi, è quello di avere la possibilità di creare organi umani per consentire trapianti finalmente senza rischi di rigetto, così come ingegnerizzare immunità a determinati virus e tumori attraver- so una riprogrammazione del nostro DNA.
Tuttavia, quando si parla di genetica in modalità scrittura e di ingegnerizzazione del DNA, il discorso può diventare molto più complesso. Così come l’Illuminismo ha permesso all’umanità intera di scoprire che poteva essere artefice del proprio destino attraverso le tecnologie dell’automazione, della meccanica e dell’energia, la svolta epocale delle scienze degli ultimi decenni ha riproposto la complessità, indeterminabilità e non linearità dei vari mondi oggetto di studio: da quello fisico a quello biologico. Non basta perciò conoscere il genoma umano per poter dire di aver compreso l’essere umano nella sua interezza, perché esistono processi dovuti all’interazione fra l’ambiente e le caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo che fanno sì che certi geni siano espressi solo in diversi stadi dello sviluppo o solo in popolazioni cellulari appartenenti a certi tessuti e solo in seguito alla ricezione di certi segnali molecolari.
L’impressione, quindi, è che – com’è avvenuto nel settore dell’intelligenza artificiale, dove grandi scienziati come Stephen Hawking si sono preoccupati di esprimere posizioni di cautela relativamente all’apertura troppo prematura del vaso di Pandora – anche nel terreno della genetica sia necessario procedere con molta calma, ponderando attentamente le possibili conseguenze di un’eccessiva creatività nell’editing del nostro codice sorgente, il DNA, ed evitare quindi possibili futuri dove fantomatiche Umbrella Corporation possano creare i danni che vediamo nei videogiochi e nei film.
*Riportiamo un brano tratto dal libro “Future Health” di Gabriele Grecchi, a cura di Alessandro Rimassa (Egea Editore).