La notizia è sintetizzabile così: nonostante dal 2015 l’economia sia ripartita a un ritmo discreto la povertà assoluta in Italia nel 2017 è aumentata rispetto all’anno precedente. Lo dicono i dati dell’Istat che servono a fare chiarezza su un tema che, dopo anni di grave dimenticanza, gode ora di un’assoluta centralità nel dibattito politico. La prima riflessione da fare, dunque, è che i vantaggi della ripresa — come si dice in gergo — “non si scaricano a terra” ovvero non danno frutti tangibili a favore della fascia bassa della società. Infatti vivono in una condizione di povertà assoluta circa 1,8 milioni di famiglie che corrispondono a più di 5 milioni di persone. Nel giro di soli dodici mesi il peggioramento è stato sensibile: era indigente il 6,3% delle famiglie e oggi siamo saliti al 6,9%, gli individui poveri assoluti erano il 7,9% della popolazione e a fine ‘17 siamo arrivati all’8,4%. Parte di questo incremento è puramente tecnico-statistico, legato al computo dell’inflazione (due decimali) ma colpisce che tutto ciò avvenga in una fase di ripresa e non di recessione e che, come annota l’Istat, entrambi i valori siano i più alti dal 2005, inizio delle serie storiche. La crescita del Pil, quindi, non riesce a mitigare le disuguaglianze ed è una novità non da poco perché in passato comunque le ripartenze avevano prodotto effetti positivi anche in basso.
Per avere qualche riferimento concreto sui valori delle soglie di povertà è utile ricordare che vengono calcolate sulla spesa per consumi di una famiglia. Ad esempio, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo, la soglia di povertà è pari a 826,73 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 742,18 euro se vive in un piccolo Comune settentrionale, a 560,82 euro se risiede in un piccolo Comune del Mezzogiorno. Tra gli individui in povertà assoluta si stima che le donne siano 2,5 milioni (incidenza pari all’8,0%), i minorenni 1,2 milioni (12,1%), i giovani di 18-34 anni 1,1 milioni (10,4%, valore più elevato dal 2005) e gli anziani 611 mila (4,6%).
Nella mole di dati prodotti dall’Istat si possono pescare molti dettagli interessanti: ad esempio come la condizione professionale di operaio si abbini per l’11,8% a quella di povero (è il fenomeno dei cosiddetti working poor), mentre il valore massimo di indigenza si registra nelle famiglie in cui il capo è in cerca di occupazione (26,7%) e resta invece al di sotto della media tra le famiglie di pensionati (4,2%). Quanto all’incidenza territoriale rispetto al 2016, le famiglie residenti nelle periferie delle aree metropolitane e nei grandi Comuni del Nord hanno visto peggiorare la propria condizione, con un’incidenza di povertà assoluta che si porta a quota 5,7% da 4,2% del 2016. Nel Mezzogiorno, invece, l’incidenza della povertà assoluta cresce verticalmente nei centri delle aree metropolitane (da 5,8% del 2016 a 10,1%) e nei Comuni fino a 50 mila abitanti (da 7,8% al 9,8%).
Dai dati alle scelte politiche dei nostri giorni il passo stavolta sembra breve. Domina la scena la proposta del reddito di cittadinanza avanzata in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle e oggi parte integrante del programma del governo Conte. In una prima fase il ministro Luigi Di Maio aveva indicato il rifinanziamento dei Centri per l’impiego come condizione indispensabile per implementare il nuovo provvedimento, ieri però è intervenuto per ribadire che il reddito di cittadinanza deve partire già dal 2018. Al di là della tempistica restano poco chiari la platea interessata e le coperture finanziarie assieme a un equivoco di fondo che è ricorrente. Il reddito che ha in mente Di Maio è una misura contro la povertà o contro la disoccupazione? È vero che le due figure sociali in parte coincidono, ma solo in parte. Se si dovesse optare per considerarlo una misura anti-indigenza si potrebbe lavorare sull’impianto del Rei, il reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, e potenziarlo. Nell’altro caso le soluzioni sono tutte da inventare e lo stesso ministro nei giorni scorsi aveva ventilato l’ipotesi di ripescare la formula del lavoro socialmente utile.