A metà del 2013, al punto più basso dopo la doppia recessione dell’Europa del Sud, l’Italia e la Spagna erano allo stesso punto: entrambe avevano perso un decimo del reddito. Oggi la Spagna è sopra i livelli del 2008 quasi del 5%. L’Italia, dopo quattro anni e mezzo di ripresa, è del 5% sotto i suoi livelli pre-crisi. Né è chiaro che il governo di Madrid sia stato aiutato da un deficit pubblico più alto perché, in proporzione alle dimensioni dell’economia, in questi stessi anni lo ha ridotto a un ritmo del doppio più veloce.
In teoria questo passato adesso dovrebbe giocare a favore dell’Italia. È quest’ultima che dovrebbe avere più spazio per rimbalzare, riavvicinandosi ai livelli di dieci anni fa. Invece a giudicare dal primo dato del quale almeno in parte risponde il nuovo governo di Roma – il secondo trimestre di quest’anno – la Spagna continua a crescere tre volte più rapidamente dell’Italia. Quest’ultima allo 0,2%, la prima allo 0,6% nei tre mesi da aprile a giugno. In entrambi i casi è il risultato peggiore da tempo: l’ultima volta che l’economia italiana si era mossa in modo così esitante infuriava la campagna per il referendum costituzionale. Colpisce soprattutto che dopo un anno positivo, non lontano dal 2%, l’economia italiana sia rientrata così presto nel suo solito alveo: stiamo crescendo a un ritmo di meno dell’uno per cento l’anno. L’Italia è di nuovo nella gabbia degli zero-virgola, dove in media ha passato l’ultimo quarto di secolo.
La spiegazione non può essere l’euro in sé perché appunto un Paese molto simile come la Spagna sta crescendo molto di più e riducendo il deficit molto più in fretta, con lo stesso tasso di cambio e gli stessi tassi d’interesse ufficiali. Pesa senz’altro la frenata del commercio internazionale, che correva del 4,7% l’anno scorso ma ora sta prendendo un’onda di freddo dal rallentamento della Cina e per le tensioni sui dazi. Si avverte però anche l’effetto di ingredienti di origine più prossima. Non è chiaro perché un imprenditore italiano dovrebbe investire di più, in questo stato di incertezza: non sa se gli incentivi «Industria 4.0» saranno rinnovati nel 2019; ignora i termini ai quali potrà assumere dipendenti a tempo o meno, ma teme che i costi salgano per entrambi; non sa su quali infrastrutture potrà contare, se potrà rifornirsi di acciaio prodotto in Italia e quanto lo pagherà, se il costo dell’energia resterà più alto che in quasi tutta Europa. Ma un imprenditore oggi sa che nessuno nel governo sta discutendo di come rendere la giustizia civile e l’amministrazione più efficienti. E nessuno si chiede perché nel 2017, in piena ripresa, solo verso la Germania sono emigrati 65 mila italiani: un record e un’emorragia di consumatori e produttori ricchi di energie e competenze.
Di questa realtà deve rispondere chi oggi ha il compito di governare. Che l’Italia sia su un crinale fragile si misura nei rendimenti che deve offrire per trovare compratori dei suoi titoli di Stato: un premio al rischio molto più alto di quello del Portogallo, a metà strada fra Francia e Grecia. E l’inflazione di fondo nell’ultimo mese è scesa con il tasso di crescita, segno che gli oneri da interessi sul debito pubblico resteranno molto pesanti per una dinamica così debole dell’economia. Dall’estero centinaia di gestori di fondi aspettano di capire qual è il segnale per un altro «Big Short», dopo quello di maggio: una scommessa al ribasso sull’Italia, costosa da lanciare ma potenzialmente molto redditizia. Alcuni credono l’innesco sia la Legge di stabilità, che però potrebbe non far salire il deficit. Altri si preparano a una caduta del governo, che pure non sembra vicina. Probabile invece che l’iceberg sommerso sul cammino dell’Italia sia lo stesso incrociato tante volte in passato: la crescita zero-virgola e un governo che non capisce come rianimarla. È quella che rende l’inerzia del debito, agli occhi degli investitori, in proporzione davvero troppo grande.