La pubblicità è una forma d’arte? Per Fortunato Depero, sì. Rimangono iconiche le sue pubblicità degli anni ’30 per Campari o per il liquore Strega. E’ proprio in questi anni che si afferma il moderno concetto di pubblicità, una forma d’arte – secondo i futuristi – che assume un forte potere simbolico dove si stabilisce una prima sintonia tra il mondo industriale e i consumatori. Quello che ancora rimane di quelle intuizioni è la capacità della pubblicità di rappresentare i tempi in cui viviamo in una forma che deve sempre puntare ad attirare l’attenzione.
Non so se i pubblicitari siano paragonabili a degli artisti, ho seri dubbi di fronte a molte pubblicità che si vedono in giro, ma sicuramente il loro mestiere non è per niente facile di questi tempi. Tutti possono fare pubblicità dei propri prodotti e di se stessi nel web. Clamorose sono le campagne pubblicitarie che nascono dal nulla e che diventano virali, create da perfetti sconosciuti. Negli ultimi anni in Italia perfino una agenzia funebre abruzzese (Taffo, onoranze funebri) è diventata oggetto di studio tra gli esperti dopo le sue irriverenti campagne pubblicitarie che hanno fatto impazzire il web.
Rimane il fatto che riuscire a “bucare” lo smartphone non deve essere un’operazione semplice. Chi si aspettava che la pubblicità del “Buondì”, quella dell’asteroide che colpisce mamma e papà, facesse tanto scalpore? E’ bastato rompere la visione della famigliola perfetta alla Mulino Bianco (Barilla proprio in queste settimane ha rinnovato la sua campagna pubblicitaria con spot altamente rassicuranti) per creare uno tsunami in grado di finire sui telegiornali in prime time.
Al vederla mi sono venute due domande: cosa avrà pensato la “riservata” famiglia Bauli, proprietaria da qualche anno del marchio Motta? Le vendite, dopo il primo impatto, aumenteranno visto che quel prodotto è dedicato alla famigliola perfetta? Quella pubblicità ha rotto un’identità magari logora ma sicuramente ben definita e non è detto che questo abbia creato nuovi acquirenti della merendina visto che poi non è cambiato il prodotto.
In queste settimane poi sta girando un’altra pubblicità che ha del geniale per chi l’ha inventata. Pirelli da sempre su questo fronte è stata avanti. Negli ultimi anni il produttore di pneumatici ha fatto una ricognizione precisa delle sue pubblicità attraverso la pubblicazione di due volumi, di cui uno fresco di stampa: “La pubblicità con la P Maiuscola”. Chi non ricorda la pubblicità con Carl Lewis del ’95 “power is nothing without control”? Per il suo ritorno in Borsa avvenuto nel mese di ottobre, Pirelli si è inventata un claim altrettanto forte e incisivo: “Investi in una start up che ha 145 anni”.Abbinare la parola start up, sinonimo di giovani, ad un’azienda che ha 145 anni di storia è una strategia azzeccata. E temo che da qui in avanti molte aziende riprenderanno questo concetto tanto da abusarne. Pardon, tanti pubblicitari, o sedicenti tali, replicheranno questa idea fino alla noia.
Paolo Iabichino, con il suo libro “Scripta Volant”, parte proprio dal tentativo di salvare questa professione. La professione è minacciata, nello specifico quella del copywriter, a fronte della rivoluzione internettiana che si è avuta negli ultimi anni che ha stravolto i canoni di chi scriveva la pubblicità quando questa era ancora “una fabbrica di meraviglia”. Iabichino nel definire una nuova sintassi della professione sceglie proprio la via di lavorare sulle ventuno lettere dell’alfabeto partendo dalla A, che sta per Ascoltare, fino ad arrivare alla Z, che sta per ZMOT (Zero Moment Of Truth).
Ne emerge un libro che non diventa mai specialistico. Il rischio di trasformare un saggio in un manuale per cultori della materia è sempre dietro l’angolo quando qualcuno che la conosce profondamente decide di scriverne. L’autore lo fa con la dimestichezza di chi è nato con i calzoncini corti dentro a questo mestiere e di chi ha avuto la possibilità di osservare da vicino i grandi protagonisti della pubblicità, il tutto senza mai scadere in tecnicismi. Nella pubblicità come in tante altre materie, essere un mestierante è semplice, avere la possibilità di costruirsi una professione, passo passo, stando vicino a guru del settore, è un’altra cosa. E’ un privilegio concesso a chi ha cominciato a lavorare perlomeno negli anni ’90. Poi lo spezzettamento dovuto ai contratti a termine e, soprattutto, ad un mercato del lavoro sconnesso, non hanno permesso a tanti giovani di creare solide competenze.
Forse anche in questa logica Iabichino compie delle riflessioni per cercare di ristabilire i basics del pubblicitario e contemporaneamente fa un’operazione di give-back per le nuove generazioni. In fondo, fare il pubblicitario oggi non è tanto diverso nei fondamentali da quello di ieri. E’ il numero e la profondità di strumenti di cui disponi che fa la differenza. I social media hanno allargato lo spettro di canali su cui la pubblicità può inserirsi e i big data offrono occasioni fino a qualche tempo fa sconosciute per capire cosa vuole il consumatore. Un habitat inimmaginabile anche fino a cinque anni fa.
In Facebook oggi oltre 65 milioni di aziende hanno la loro pagina e contemporaneamente più di 2 miliardi di persone sono presenti nel social di Menlo Park. Non a caso già nel 2015 il premio della pubblicità italiana è andato ad una campagna fatta da Ceres proprio per Facebook. In questo spazio sconfinato, alla difficoltà di centrare l’obiettivo si aggiunge una mutazione genetica secondo Iabichino: “Assistiamo a una specie di paradosso consumistico dove sono le persone a seguire le marche e non viceversa”.
Il lavoro del pubblicitario aumenta il suo grado intrinseco di complessità. Scrivere cose che abbiano un senso, nel tentativo di impattare sulla vita delle persone, sembra essere un’operazione più simile a quella di un esploratore che non conosce bene né la rotta né gli effetti delle sue scoperte. Il libro è pervaso da una visione etica che lascia in qualche caso un po’ perplessi.
Lo sappiamo tutti che la pubblicità ha logiche e metodi non sempre chiari. Tanto più gli studi legati al neuromarketing avanzano, tanto più vi sono rischi manipolativi. Ma molto più banalmente basta aprire un qualsiasi magazine per vedere come molti articoli siano in realtà mere pubblicità spacciate per “branded content” (lo sviluppo e la produzione di contenuti originali concepiti ad hoc a partire dai temi e dai valori di comunicazione del brand). La linea di demarcazione tra giornalismo e marketing è molto sottile, e in tempi magri per gli introiti pubblicitari, rischia di diventare sempre più invisibile.
Non conoscendo personalmente Iabichino non so se sia solo “fuffa” o vera convinzione, ma “Scripta volant” va visto come un libro che è rivolto alle nuove generazioni per farne un uso quale fosse un “giuramento di Ippocrate”. Spesso la retorica pubblicitaria si muove con grande sfrontatezza sulla frontiera che divide l’etica e la demagogia. Non è un semplice richiamo ad essere trasparenti o leali. Quello che Iabichino più volte fa riecheggiare tra le sue righe è l’andare oltre il dire qualcosa a qualcuno: “Oggi siamo chiamati a dare qualcosa in cambio dell’attenzione che ci è concessa (…). Ma mi piace pensare che se i vestiti tornano a fare i vestiti e i succhi di frutta ad avere solo frutta dentro, allora anche le parole della pubblicità possono tornare a dire (e a dare) qualcosa che interessa davvero che le riceve”.
La pubblicità è in affannosa ricerca di storie, quelle vere che appassionino le persone. Storie che ci facciano identificare con un brand o con qualcuno, che ci aiutino a vivere meglio. Per questo cerca testimonial, anzi maestri. Già negli anni ’80 Lee Iacocca, allora Presidente di Chrysler indirizzava ai consumatori una frase divenuta celebre: “If you can find a better car, buy it” (“Se riuscite a trovare un’auto migliore, compratela”).
Negli ultimi anni è una prassi per i capi azienda finire dentro ad uno spot per raccontare il loro prodotto. Giovanni Rana, Francesco Amadori ed Ennio Doris (adesso ha lasciato il testimone al figlio) hanno segnato in questo senso le pubblicità domestiche. Molte anche le campagne pubblicitarie che hanno puntato sui dipendenti quali garanti della qualità. Poltrone&Sofà, abbandonata Sabrina Ferilli, testimonial per molti anni, ci ricorda che ogni santa settimana contiene un weekend utile per fare shopping grazie agli “artigiani della qualità”. Lo stesso Giovanni Rana ha ingaggiato i suoi operai – ops collaboratori-, per una pubblicità che potremmo definire circolare: parte da lui, passa attraverso i suoi lavoratori e ritorna a lui con tanto di visite organizzate in azienda.
Il tentativo è quello di far diventare l’acquisto un’esperienza reale e personalizzata. Per fare questo il racconto deve nutrirsi di una realtà che si forma con una scrittura semplice e intima. Visti i tempi, qui serve, secondo Iabichino, quello che Maurice Lévi, uno dei principali protagonisti del mondo pubblicitario odierno, definisce il quoziente creativo. Un’operazione aritmetica che si compone di una dose importante di quoziente d’intelligenza, a cui sommare uno spiccato quoziente emotivo, a cui aggiungere un numero cospicuo di tecnologia. Qualche anno fa, Luca De Meo nel suo libro, “Da 0 a 500” (Marsilio), nel raccontare gli anni felici trascorsi in Fiat, dichiarava che esisteva una via latina del marketing, ed in particolare della pubblicità, anche perché “sta crescendo la consapevolezza che non c’è – forse non c’è più – felicità nel mero gesto del consumare, se questo non serve a costruire relazioni con gli altri”.
Titolo: Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità di oggi
Autore: Paolo Iabichino
Editore: Codice Edizione
153 pp; 13,60 Euro