Nei talk show più rissosi l’argomento «povertà» è una delle clave preferite. A colpi di citazione dell’Istat e dei-cinque-milioni-di-poveri-assoluti (e di un numero iperbolico di «relativi») i contendenti usano quest’argomento per bastonare l’avversario e metterlo in fuga. Se però dalla passerella del grande schermo passiamo alla cruda realtà quotidiana l’interesse per i temi dell’indigenza cala paurosamente. Facendo seguito a un appello di papa Francesco domenica 18 novembre, e per il secondo anno, era stata indetta la giornata mondiale della povertà e conseguentemente in Vaticano è stato organizzato un pranzo con 1.500 nostri concittadini ridotti in stato di povertà. Ora è evidente che nel calendario politico-culturale sono diventate troppe le giornate consacrate a singoli temi e si rischia di creare una grande melassa, ma in questo caso il sigillo papale avrebbe dovuto fare la differenza.
E avrebbe dovuto costituire un richiamo per quelle forze politiche, al governo ma anche all’opposizione, che si autocertificano come soggetti capaci di abolire addirittura la povertà o quantomeno di mettere al primo posto del loro rinnovato programma la lotta alle disuguaglianze. Invece niente, la politica domenica era troppo indaffarata a litigare con i leghisti sui rifiuti o a rilanciare lo Zingaretti-pensiero. In realtà nell’un come nell’altro caso il richiamo alla povertà corrisponde solo alla necessità di darsi un posizionamento politico o di scomunicare un avversario. Ma quando si tratta di far vivere nel concreto certe battaglie e magari organizzare esperienze di incontro e solidarietà con il popolo, quello in carne e ossa, i paladini della redistribuzione fanno a gara a girarsi dall’altra parte.