Tutto il potere viene dal popolo, va bene, ma dove va? La domanda di Brecht torna attuale in questa Italia che ha già perso due decenni della sua storia. Se si sta ai dati della Banca mondiale, in termini reali e cioè depurati dall’inflazione, il reddito per abitante di oggi era stato già raggiunto per la prima volta una ventina di anni fa. Adesso non facciamo che riaffacciarci a quei livelli dopo una lunga fase di crescita lenta a cui sono seguiti, dal 2007, un crollo del 10% e poi una flebile ripresa. Naturalmente esistono Paesi per i quali il «tempo perduto» della storia è ancora più lungo.Per esempio l’Ucraina (39 anni), la Serbia (44) o il Venezuela (54). Eppure nell’area euro non si trovano altri Paesi distanti come noi oggi dal momento in cui per la prima volta sono arrivati al benessere attuale. La Grecia lo aveva già raggiunto diciotto anni fa; Spagna e Portogallo intorno al 2008, ma adesso si stanno riprendendo in fretta entrambi e sono sul punto di segnare nuovi massimi storici.
L’unicità del caso italiano in Occidente indica che l’euro non può essere la spiegazione, almeno non se presa da sola. Non è un caso se il dibattito esistenziale che continua a divampare qui in Italia sul senso di far parte della moneta unica non lo si ritrova più da nessun’altra parte, neanche in Grecia. Gli altri popoli europei hanno voltato psicologicamente pagina e ora si concentrano, anche con opinioni diverse e discussioni molto accese, su come far fruttare i vantaggi che l’euro offre.
Da noi sembra di vivere ingabbiati in un’epoca anteriore. Le ferite della recessione — subite per gli errori di Bruxelles, di Berlino ma più spesso di Roma — bruciano così tanto che ogni partito, nell’affacciarsi al potere, è dominato dalla stessa ansia: riattivare al più presto un’economia depressa che sta perdendo terreno da un trentennio. Questa fretta dei politici dà la misura della loro paura di perdere il consenso di una popolazione sfiduciata, quindi di venire travolti. Cinque Stelle e Lega vogliono risolvere il problema in un modo che ricorda un po’ il Brasile, il Cile o il Messico degli anni 70 e 80: spingere il più possibile sulla creazione di deficit pubblico per ridare vita alla domanda interna, respingendo l’idea che possano esserci vincoli nelle regole o nella capacità di sostenere tutto il debito che ne risulta. Goldman Sachs, la banca americana, stima che attuando anche solo parte del contratto di governo il debito dell’Italia di avvicinerebbe al 140% del prodotto lordo in tre anni (senza tener conto degli extra se si attuasse anche l’idea di pagare in «mini-titoli di Stato» le imprese fornitrici dell’amministrazione).
Queste politiche hanno fallito ovunque e a pagare il prezzo sono sempre stati i più deboli, ma il punto è un altro: il programma di 5 Stelle e Lega ha almeno il merito di chiarire agli italiani quale sia la posta in gioco. Parla di produttività solo in relazione agli uffici giudiziari; parla di mercato solo in negativo, come fattore da limitare, depotenziare e controllare. Non parla di nuove tecnologie. Parla invece di un ruolo attivo e diretto del governo nel sistema finanziario, attraverso una propria banca e anche attraverso il Monte dei Paschi. È una visione interventista, corporativa, protezionista e paternalista di un Paese avanzato e complesso. È la visione del «sovranismo», di chi pensa di poter gestire da solo le proprie cose senza doverle condividere con nessun altro. E può piacere o no, ma non sembra compatibile con le istituzioni dell’Unione Europea che invece sono basate sul controllo della finanza pubblica, un mercato regolato ma aperto, una società aperta, una sovranità condivisa con altri 26 Paesi e una moneta condivisa con altri 18 per far fronte alle pressioni della Cina, degli Stati Uniti o della Russia.
È possibile che le stesse forze politiche presto passino da una parte all’altra, ma quella fra un futuro europeo e un futuro «sovrano» è e resterà la scelta che il Paese ha davanti. È storica come le elezioni del ’48, quando la Dc di Alcide De Gasperi sconfisse il Fronte popolare guidato dal Pci e ancorò l’Italia in Occidente e in Europa. Ora il fronte europeista non può illudersi di risalire la china grazie al «Project fear» già sconfitto con la Brexit, il «progetto paura», la propaganda che minaccia catastrofi se voltassimo le spalle all’Ue o all’euro. La parte d’Italia che crede nella vocazione europea del Paese deve portare un messaggio di speranza, perché è quando gli elettori perdono anche quella che sono pronti al salto nel buio.