Dalla crisi del 2008 si è molto discusso di come superare la presunta supremazia dell’economia e dei mercati finanziari sulla democrazia. L’illusione è quella che un governo possa ignorare problemi come i vincoli di bilancio o la necessità di rifinanziare il debito pubblico, solo perché eletto sulla base di promesse irrealizzabili. Il trionfo dei leader populisti in giro per il mondo avrebbe finalmente restituito alla politica il suo primato. Ma le conseguenze di questo abbaglio, ormai sempre più visibile, stanno diventando molto pesanti.
Negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump persevera nella sua guerra commerciale contro Pechino. Giovedì ha annunciato nuovi dazi del 10% su circa 300 miliardi di dollari di importazioni cinesi. L’obbiettivo, oltre al Paese asiatico, sembra essere il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, che aveva ignorato le richieste di Trump di un taglio dei tassi consistente, preferendo ridurli solo di un quarto di punto percentuale. L’impressione è che Trump stia cercando di mettere Powell in un angolo, obbligandolo a espandere di nuovo la politica monetaria, e allo stesso tempo di aumentare la pressione sui suoi interlocutori cinesi in una fase importante dei negoziati sul commercio.
Il problema è che la realtà economica si può ignorare, ma non sopprimere. La crescita americana sta rallentando, anche a causa del clima di incertezza prodotto da Trump che colpisce soprattutto manifattura e investimenti. I mercati finanziari, che Trump utilizza costantemente per vantarsi dei successi delle sue politiche, erano pesantemente in rosso venerdì, temendo una nuova escalation tra Washington e Pechino. Anche in Gran Bretagna, il nuovo primo ministro Boris Johnson procede convinto con le sue idee eterodosse. La decisione di puntare diritto verso la Brexit, promettendo di uscire dall’Ue il 31 ottobre anche in assenza di un accordo, ha fatto crollare la sterlina, che è ai minimi da oltre due anni nei confronti di euro e dollaro. Una Brexit senza accordi renderebbe molto più difficile per la Gran Bretagna commerciare con l’Ue, provocando un’ulteriore svalutazione della moneta britannica e un aumento dell’inflazione. Il Regno Unito rischia così di entrare in una fase di cosiddetta “stagflazione”, un periodo di crescita ferma o addirittura recessione, accompagnato da un’accelerazione dei prezzi.
In questo contesto, sarebbe molto difficile per il governo o la Banca d’Inghilterra sostenere la crescita, visti i rischi di far salire ulteriormente il costo della vita. In questo quadro di incertezza globale, l’Italia ha scelto, anche se con un evitabile ritardo, la linea della prudenza. Al di là degli slogan dei vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il governo ha concordato con la Commissione europea una manovra correttiva che ha fatto ridurre notevolmente lo spread. Ma i rischi restano dietro l’angolo: nei giorni scorsi, Salvini ha affermato che la prossima manovra dovrà contenere importanti tagli delle tasse, guardandosi bene dal descrivere quali saranno le coperture. I tassi d’interesse sui titoli di Stato decennali italiani sono subito risaliti, a conferma della fragilità dell’equilibrio in cui viviamo.
Il governo deve decidere se voler tornare ad essere un rischio globale, come a fine 2018, oppure provare a gestire i potenziali shock che vengono da fuori – quali una Brexit senza accordo o le guerre commerciali di Trump – in una situazione di relativa stabilità. Qualsiasi tipo di manovra, soprattutto se più espansiva di quella ipotizzata negli scorsi mesi, richiede credibilità. Per averla non bastano i tecnici, serve il primato della politica – ma di una politica che abbia reale consapevolezza dei pericoli che corre il Paese.