Quanto strana sia la politica industriale in Italia lo si nota da un dettaglio: giovedì scatta una misura approvata quando Luigi Di Maio era ministro dello Sviluppo.
Diventa disponibile un fondo di 50 milioni per pagare un «innovation manager» alle imprese. In attesa di sapere quale sia la fortunata azienda che potrà vendere consulenze private sul digitale incassando denaro pubblico, altre voragini si aprono al ministero dello Sviluppo (Mise). Ad ArcelorMittal è stato regalato l’alibi perfetto non solo per disimpegnarsi da Ilva — dovrebbe dare lavoro a 10.700 persone — ma potenzialmente far sì che l’impianto si spenga. Con l’attuale eccesso di produzione d’acciaio nel mondo, oggi l’azienda italiana perde 50 milioni al mese. I Mittal erano motivati nell’investimento dal desiderio di non lasciare la capacità produttiva di Taranto a un rivale, ma di controllarla essi stessi. Ora se possono eliminarla senza spendere — ritirando le tutele legali promesse, il governo lo permette — gli indiani non chiedono di meglio. Un errore del genere obbliga a chiedersi se ci sia ancora qualcuno che gestisce le crisi industriali in Italia. Alitalia procede nella confusione, con un investitore (Fs) che è anche un concorrente — sulla rotta Roma-Milano — e la prospettiva di grandi tagli occupazionali. Più piccolo ma non meno grave, il caso Whirpool a Napoli è stato lasciato degenerare nell’inazione. Un fondo pubblico da un miliardo per il «venture capital» è fermo da un anno perché i politici litigano sulle nomine. E sempre da un anno Sider Alloys di Portovesme (ex Alcoa) attende dal governo una misura — vitale — che le permetta di calmierare il costo dell’energia. Al Mise la figura di riferimento per le 160 crisi industriali oggi è Giorgio Sorial, un ex deputato M5S di 36 anni non rieletto ma noto per aver definito «boia» il presidente Giorgio Napolitano. I lavoratori, intanto, aspettano risposte.