Nella giornata più incandescente della crisi italiana, le mosse della politica e le impennate dei mercati entrano in un drammatico vortice di condizionamenti reciproci. E alla fine lo spread schizza a quota 290 ( con un massimo giornaliero di 320), mentre la Borsa di Milano lascia sul terreno un altro 2,6%, e insieme a quella di Madrid contribuisce ad affossare i listini di tutta Europa. L’onda arriva fino a Wall Street (Dow Jones – 1,58% sui minimi dell’anno).
La consapevolezza di un nuovo vuoto governativo dopo la decisione dei pentaleghisti di gettare la spugna a causa della bocciatura di Paolo Savona, e soprattutto i timori che il piano B di uscita dall’euro resti una carta in mano al futuro esecutivo, avevano già provocato fin dalle prime ore una massiccia vendita di Btp. Sul successivo pressing dei partiti per votare subito a luglio, senza aspettare la formazione del governo Cottarelli, deve avere pesato anche la paura che proprio la schiacciante offensiva dei mercati vista in mattinata potesse prolungarsi per tutta l’estate e aggravarsi. Potesse diventare un bombardamento ininterrotto di qui a ottobre e oltre. Esattamente come avvenne nel 2011, sotto il governo Berlusconi, quando l’Italia rischiò la bancarotta. Ebbene, se le lancette dell’orologio tornassero a quella torrida estate di sette anni fa, se lo spread sfiorasse come allora i 600 punti, le conseguenze sarebbero drammatiche. Per lo Stato innanzi tutto (e quindi per tutti i contribuenti) perché la spesa per interessi – spiega l’Ufficio parlamentare di bilancio – salirebbe nei prossimi tre anni di 22 miliardi. Drammatiche, probabilmente, per chi deve contrarre un nuovo mutuo anche se i tassi di interesse Euribor (su cui si calcolano i finanziamenti a tasso variabile) e Eurirs (che vale per i mutui a tasso fisso) rimanessero immutati. Le banche italiane si troverebbero infatti spinte ad aumentare la differenza tra quanto pagano il denaro e il tasso a cui lo prestano per far fronte alle minusvalenze che dovrebbero registrare sui titoli di Stato che hanno in portafoglio. L’ultima volta che questo è accaduto, nel 2012, i tassi dei mutui sono saliti proprio per questa ragione del 4%. Drammatiche per le banche ( le più bersagliate in Borsa), perché per ogni cento punti in più di spread, il totale dei titoli di Stato che hanno in portafoglio si deprezza di 3 miliardi e mezzo. Drammatiche infine per le imprese, soprattutto quelle piccole: nel 2011 hanno dovuto subire un aumento di 15 miliardi degli oneri finanziari e anche in questo caso potrebbero avere effetti indiretti.
Ieri abbiamo assistito alle prove generali di questo ritorno al passato. E c’è una circostanza, in particolare, che ha fatto tremare i polsi a banche, imprese e autorità monetarie. Per la prima volta dalla crisi del debito sovrano di sette anni fa, lo spread sui Btp a due anni ha superato quello sui dieci. Dietro questo sorpasso tecnico che apparentemente appassiona solo gli addetti ai lavori, c’è in realtà un salto di qualità preoccupante nella crisi di fiducia che investe il nostro Paese. Lo spread, come è noto, è la differenza tra il rendimento dei Btp italiani e quello dei Bund tedeschi. Se aumenta vuol dire che dobbiamo pagare un interesse maggiore per convincere gli investitori a sottoscrivere i nostri titoli. E lo dobbiamo fare perché cala la fiducia nella nostra capacità di ripagare il debito pubblico, il terzo più alto del mondo, pari al 132% del Pil. Quando però questo prezzo è maggiore nelle scadenze brevi dei Btp più che in quelle lunghe, vuol dire che la fiducia sta venendo meno già nel breve periodo, ossia che non c’è più tempo da perdere e bisogna subito fare qualcosa per invertire la tendenza.
Ecco dunque il senso di quello spread a due anni che sale a 343 punti, 190 in più in un solo giorno. Un andamento che allarma, tanto che il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha voluto dichiarare che « non ci sono giustificazioni, se non emotive, per quello che sta succedendo oggi sui mercati » . Ed è così: i fondamentali non giustificano certamente questa corsa al disinvestimento di titoli di Stato: il deficit è sotto controllo, il debito, pur enorme, sta lentamente calando, l’economia cresce dell’ 1,5%. Ma gli investitori, si sa, si muovono sulla base delle aspettative. E a macchiare di rosso le loro attese non è solo l’incertezza politica: ci sono anche e soprattutto le 60 slide del piano B di uscita dall’euro, attribuite a Paolo Savona e ai suoi allievi. Ci sono quegli 8 miliardi di banconote di Nuove Lire che dovrebbero eventualmente essere stampate in poche settimane, c’è lo scenario da incubo di una svalutazione del 15-25 per cento, c’è l’accettazione di un parziale default del debito pubblico, che verrebbe restituito in lire, c’è la ripresa dell’inflazione. Che quel piano sia uscito dalla versione definitiva del contratto gialloverde, nulla toglie al fatto che qualcuno lo avesse inserito inizialmente, quasi con le stesse parole con cui Paolo Savona ha da sempre prefigurato l’eventuale abbandono dell’eurozona.