In Lombardia l’emergenza coronavirus ha quasi triplicato le morti per infarto acuto e ha ridotto del 40% le procedure salvavita di cardiologia interventistica. Questo perché, durante la pandemia che nella regione più colpita d’Italia ha ucciso 12.376 persone, chi soffriva di cuore ha evitato di andare in ospedale. Perché gli ospedali erano i «luoghi del contagio», da evitare a meno che non si avessero sintomi gravissimi, altrimenti potevano essere causa di infezione da Covid. I dati sono frutto di una ricerca di uno dei principali hub cardiologici d’Italia, l’ospedale Monzino. «Dall’inizio dell’epidemia, i pazienti arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso già con complicanze aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie che da molti anni hanno dimostrato di essere salvavita nell’infarto, come l’angioplastica coronarica primaria. Questo perché il virus spinge la gente a rimandare l’accesso all’ospedale per paura del contagio», spiega uno degli autori, Giancarlo Marenzi, responsabile della Unità di Terapia Intensiva Cardiologica, che ha fatto lo studio insieme a Antonio Bartorelli, direttore della Cardiologia Interventistica, e a Nicola Cosentino dello staff dell’Unità di Terapia intensiva cardiologica.Nel loro report, gli scienziati citano un recente studio sull’attività di 81 Terapie Intensive Cardiologiche in Spagna nella settimana dal 24 febbraio al primo marzo e la confrontano con quella dello stesso periodo dello scorso anno. Ne è risultato che anche in Spagna l’attività delle Terapie Intensive Cardiologiche si è ridotta in modo sensibile a causa di un calo importante dei ricoveri per infarto. Per i medici del Monzino, il ritardo a presentarsi in ospedale è stato fatale per molti malati di cuore: «Impedisce trattamenti tempestivi e nell’infarto il fattore tempo è cruciale. Il nostro ospedale, insieme ad altri e a società scientifiche italiane e internazionali, dopo aver osservato il calo degli accessi al pronto soccorso, da qualche settimana ha lanciato un appello a non rimandare le cure. Ora i dati di mortalità legata a questo calo ci danno ragione e ci sollecitano a ripetere con forza: per evitare il virus non dobbiamo rischiare di morire di infarto». Anche l’ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano, che col Monzino è stato da subito individuato come un hub per i problemi cardiovascolari, ha avuto lo stesso problema. Spiega Stefano Carugo, direttore dl Dipartimento Cardiocircolatorio: «Nella prima settimana di emergenza, abbiamo avuto un calo del 50 per cento tra chi arrivava in pronto soccorso da solo e gli infartati al miocardio. Ci sono persone che hanno aspettato anche due o tre sincopi prima di venire in ospedale. E poi, quando sono arrivate, erano troppo messe male per rispondere positivamente alla terapia. Purtroppo questa tendenza è andata avanti fino a dieci giorni fa e in tutte le strutture lombarde, tanto che in molte cardiologie c’è una mortalità sopra la media». Negli ultimi giorni però la situazione è migliorata, anche perché la pressione nei pronto soccorso da parte di pazienti infetti si è alleggerita. E sono tornati i pazienti «puliti», cioè quelli che non hanno il coronavirus. «Certo – chiarisce Carugo- ora arrivano tutti quelli che in queste settimane hanno sopportato il dolore perché terrorizzati all’idea di contrarre il virus venendo qui. Quindi vediamo in pronto soccorso non più pazienti Covid ma persone affette da angina, scompenso cardiaco e aritmie».