La settimana scorsa Matteo Salvini era a Mosca, per una visita della quale l’ambasciata d’Italia è venuta a conoscenza solo alcuni giorni prima attraverso una segnalazione locale: il vicepremier partecipava a un evento di Confindustria Russia, assieme all’omologa associazione moscovita. Del suo viaggio, venne notata nel resto del mondo soprattutto una frase: «In Russia mi sento a casa – disse il leader leghista – mentre in alcuni Paesi dell’Unione europea no». È rimasta invece relativamente in secondo piano una seconda affermazione di Salvini in quelle ore: «Se avete titoli di Stato da comprare, noi abbiamo bisogno di venderne per qualche miliardo alle prossime aste» ha scherzato il vicepremier, rispondendo a una giornalista russa. Anche Vladimir Putin l’altro ieri ha ripetuto qualcosa del genere accanto al premier Giuseppe Conte, ma senza ironia. «Non ci sono remore di carattere politico sull’acquisto di titoli di Stato italiani da parte del nostro fondo sovrano», ha detto il presidente russo. Quindi, poche ore dopo, Salvini ha dato l’impressione di voler frenare: «Non abbiamo bisogno di aiuti esterni».
Solo un’occhiata al calendario del 2019 può dare un’idea di cosa esattamente il leader russo e l’italiano stiano parlando. Tolti i Buoni ordinari del Tesoro (Bot), cioè gran parte dei titoli a breve termine, il Tesoro di Roma l’anno prossimo deve infatti collocare sul mercato obbligazioni per circa 250 miliardi di euro. Per più o meno 50 si tratta di nuove emissioni nette, cioè finanziamenti del deficit pubblico. Gli altri duecento miliardi in titoli a medio e lungo termine – prestiti da raccogliere – servono invece a rimborsare altri prestiti che verranno a scadenza durante l’anno. Non rimborsare o rinegoziare i termini è impensabile: significherebbe scivolare in un default, che può trasformare l’Italia nell’equivalente finanziario di uno Stato-paria.
Per questo collocare quei buoni per 250 miliardi nel 2019 è vitale, ma oggi si presenta anche come la sfida più delicata. Nei primi mesi di vita di questo governo, gli investitori dal resto del mondo hanno già fatto uscire dal Paese quasi sessanta miliardi di euro e, se questa tendenza non si inverte, il 2019 si presenta in salita. L’anno prossimo scadono titoli del Tesoro a medio-lungo termine, oltre sessanta miliardi detenuti da creditori esteri; qualora questi ultimi confermassero l’intenzione di non rinnovare, evitando di comprare altro debito di Roma, allora la missione degli investitori italiani diventerebbe sempre più difficile. Per coprire il fabbisogno dello Stato, dovrebbero incrementare la loro esposizione in obbligazioni del governo per oltre cento miliardi: sessanta solo per rimpiazzare gli stranieri, più altri cinquanta per finanziare il nuovo deficit che si crea.
Non è impossibile. Dal 1999 in tre annate le famiglie italiane hanno fatto salire la loro esposizione in debito pubblico del Paese di 50 o 60 miliardi, mai di più. Questo però basterebbe ad attrarre altri investitori e infatti proprio per incentivare il piccolo risparmio il Tesoro si sta preparando a varare un nuovo Btp Italia (e forse anche gli sgravi fiscali per i cosiddetti «Conti individuali di risparmio» in titoli di Stato).
L’operazione di rimpatrio del debito pubblico è di fatto già partita, ma può anche fallire: banche e assicurazioni nazionali non sono più disposte a sobbarcarsi nuovo rischio-Italia, mentre le famiglie dal 2011 si sono semmai liberate di titoli per 78 miliardi e invertire drasticamente questa tendenza non sarà semplice.
In sostanza, nel 2019 il debito di Roma minaccia di diventare un problema internazionale. Tutti concludono che un eventuale default per carenza di liquidità va evitato, perché lo choc sarebbe molto più grave del fallimento di Lehman Brothers. Meno chiaro però è come riuscirci, se non bastasse il risparmio delle famiglie. Sembra infatti improbabile che possa pensarci la Banca centrale europea: ieri Mario Draghi, il presidente, ha ricordato che ciò potrebbe accadere solo con un programma sul modello Trojka che il Parlamento italiano non sembra disposto ad accettare.
È questa la vulnerabilità che Putin ha subodorato. Sa che una crisi italiana può trasformarsi per lui in un’occasione preziosa. Promettere un aiuto a Roma appare a Mosca un modo di guadagnare influenza a Bruxelles attraverso uno Stato fondatore della Ue, ridotto al rango di proprio debitore, quando si discuterà di sanzioni contro la Russia. Ciò che Putin non dice, tuttavia, è che la sua offerta non è credibile: il fondo sovrano russo vale l’equivalente di 60 miliardi di euro e non potrebbe impiegare in Italia più di un decimo delle proprie risorse. Sono livelli quasi irrilevanti. Putin del resto guida un’economia disfunzionale, di un terzo più piccola di quella italiana. Ma potrebbe offrire un’idea a Donald Trump, che in estate ha già offerto aiuto sul debito a Conte (forse, attraverso l’Exchange Stabilization Fund del Tesoro Usa). Sostenendo un governo in crisi, Putin e Trump possono mettere un piede nella porta di Bruxelles: per l’Italia, non proprio una vittoria della sovranità nazionale.