È una partita al buio. Difficile e probabilmente lunga. Ma almeno da ieri, dopo tanti scenari ipotetici, anche Sergio Mattarella può cominciare a pensare a qualche formula concreta per dare un governo al Paese. Puntando anzitutto su quella che sarebbe l’opzione più semplice e naturale: affidare l’incarico a chi gli dimostrerà, numeri alla mano, di disporre di una maggioranza parlamentare solida e chiara. A questo si prepara il capo dello Stato, nello sforzo di preservare la propria neutralità e quindi senza nulla di prestabilito per quando aprirà le consultazioni e senza l’idea di voler tener fuori dal campo qualcuno. A partire dal Movimento 5 Stelle.
Infatti, certi accordi, taciti o espliciti, che hanno condizionato i passaggi cruciali della Prima Repubblica, sono caduti da tempo. Dopo il crollo del Muro di Berlino e il dissolversi della logica di Yalta non c’è più, per esempio, quella conventio ad excludendum — come l’aveva battezzata Leopoldo Elia — che per decenni aveva relegato il Pci lontano dalla stanza dei bottoni, nel timore dei suoi legami con l’Urss. Così come non c’è più l’analoga intesa, ma di segno opposto, cosiddetta dell’«arco costituzionale», che aveva escluso il Movimento sociale da qualsiasi forma di partecipazione al governo a causa dei suoi richiami al disciolto partito fascista.
Oggi, l’unica conventio ad excludendum (accordo ovviamente non scritto e con un peso potenziale perfino sul Quirinale) potrebbe consistere in una sorta di esame di europeismo cui sottoporre alcune forze politiche. Tuttavia la campagna elettorale ha dimostrato che anche i partiti di solito più maldisposti verso l’Ue — come i 5 Stelle e la Lega — hanno attenuato le proprie critiche.
Di sicuro, comunque, resta il fatto che in questa fase il Colle non intende giocare alcun ruolo. Né di scouting per una futuribile alleanza, né di mallevadore per un prossimo esecutivo. E tutto ciò fino a quando tra le forze politiche non maturerà una maggioranza.
Che sia complicato il presidente della Repubblica lo sa bene. Dalle urne sono usciti tre gruppi (centrodestra, 5 Stelle e Pd) incomponibili per identità e programmi. Eppure due di loro dovranno accordarsi e mettersi insieme, se si vuole chiudere positivamente la crisi. È una questione di responsabilità di fronte all’interesse nazionale. Basti pensare a certi nodi che rischiano di stringersi presto: dalla continua crescita del nostro debito pubblico al pericolo che da Bruxelles scatti una procedura d’infrazione.
Serviranno dunque dialoghi, negoziati e compromessi che la durezza dello scontro elettorale rende arduo già solo immaginare. Specie se si considera che al centro di tutto domina l’incognita di un Pd uscito dal voto con una leadership in drammatico affanno, ma che non si arrende alla sconfitta. Ecco perché il capo dello Stato in queste ore guarda con preoccupato interesse anche alle dinamiche interne al Nazareno. Per capire il vero senso delle dimissioni congelate di Matteo Renzi, che intende gestire il partito anche durante le consultazioni, dichiarando anzi di voler guidare lui la delegazione al Quirinale per negare qualsiasi «stampella di governo alle forze antisistema».
E di sicuro Mattarella sarà rimasto colpito dall’aspra recriminazione renziana sull’«errore» di non essere andati al voto «in una delle due finestre del 2017», cioè subito dopo il referendum, «per imporre una campagna sull’agenda europea». Insomma: se fosse andata come voleva lui, il governo di Paolo Gentiloni sarebbe stato una parentesi brevissima e insignificante. E senza frutti per il Paese.