Le gerarchie non sono efficienti «perché al loro interno, come insegna il principio di Peter, ogni dipendente tende a salire al suo livello di incompetenza». Ma le strutture piramidali funzionano male anche perché sviluppano una loro burocrazia, con un aumento degli errori nella catena di comando, e un allungamento dei tempi. E nuocciono alla salute: è provata «un’associazione diretta tra il posizionamento gerarchico e il livello di stress». Più si è in basso, più questo è alto, con rischi cardiovascolari e tassi di mortalità anche tripli rispetto ai vertici. Ma soprattutto le organizzazioni centralizzate sono fragili, come rivela il nostro corpo: «Basta un banale malfunzionamento di uno qualsiasi dei nostri organi perché la nostra sopravvivenza sia pregiudicata».
Da Darwin a Weber
Il professor Stefano Mancuso è un uomo di un’enorme cultura prima ancora che un biologo e botanico di fama, che a Firenze ha fondato un Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale. Parlando di piante passa da Darwin a Max Weber alternando astrofisica, medicina e sociologia. «La nostra organizzazione è centralizzata», ci spiega. «Abbiamo un cervello che presiede alle funzioni dei vari organi, e abbiamo replicato questo modello verticistico in tutto. Nelle società, le aziende, le scuole: tutto è organizzato secondo strutture piramidali. Anche i computer sono costruiti secondo questo schema. Ma questa organizzazione non è efficiente, è molto fragile e può essere facilmente danneggiata». «Le piante invece hanno un modello di organizzazione diffusa»,continua Mancuso. «Le funzioni vitali non sono concentrate in un organo, ma distribuite su tutto il corpo. Se noi vediamo con gli occhi, sentiamo con le orecchie, respiriamo con i polmoni, ragioniamo con il cervello ecc_; le piante vedono, sentono, respirano e ragionano con tutto il corpo. Ecco perché si può danneggiare il go per cento di una pianta, senza che cessi di vivere. Questo è anche il modello con cui abbiamo costruito Internet. La Rete ha una struttura diffusa, che non si può bloccare». Una differenza fondamentale, quella che tra i 350 e i 700milioni di anni fa ha separato le piante dagli animali. Le prime non hanno bisogno di spostarsi alla ricerca di cibo, essendo autonome dal punto di vista energetico grazie alla fotosintesi. I secondi invece sono obbligati per sopravvivere a predare altri organismi viventi. Me se sono radicate al suolo, e non possono scappare, come si difendono le piante? «B trucco sta nel non avere alcun organo fondamentale, distribuendo al contempo sull’intero corpo tutte quelle funzioni che gli animali concentrano in organi specializzati»
Diritti futuri
E così una debolezza si è trasformata in un punto di forza. Del resto basta un semplice confronto a far apparire l’enorme superiorità del mondo vegetale nella sua capacità di adattamento: «Perché percepiamo come improbabile che la specie umana riesca a sopravvivere anche solo altri 100.000 anni, quando la vita media delle altre specie è di 5milioni di anni?», si chiede Mancuso, che è anche un divulgatore scientifico di successo e ha riassunto queste sue riflessioni da ultimo in un pamphlet uscito per Laterza, dal titolo La Nazione delle piante. «Credo dipenda dai disastri che siamo riusciti a combinare sul pianeta in un lasso di tempo così incredibilmente breve come gli ultimi 10.000 anni – è la sua risposta -, ossia dal momento in cui l’uomo con l’agricoltura ha iniziato ad incidere profondamente sull’ambiente in cui vive». Da qui la «saggezza» che potremmo apprendere dalle piante, per evitare di estinguerci anzitempo, secondo quella lezione di sostenibilità da centinaia di milioni di anni messa in pratica dai nostri amici vegetali: il rispetto dei diritti di tutti gli esseri viventi, anche di quelli futuri.
Soluzioni diverse
E la soluzione che ci offrono per risolvere il problema più urgente con cui dobbiamo fare i conti oggi, la crisi climatica. «Perché tutte le soluzioni discusse si basano sul presupposto di cambiare stile di vita, ma questo richiede troppo tempo», conclude il biologo. «Gli alberi invece sono in grado di assorbire le emissioni che produciamo, e secondo una recente ricerca del Politecnico di Zurigo basterebbero 900 milioni di ettari di nuove foreste per ridurre di due terzi l’attuale livello di gas serra. E la superficie degli Stati Uniti: sarebbe una soluzione praticabile e reale». Ma il nostro «grande cervello», che si dimostra sempre più uno svantaggio evolutivo, ci spingerà sicuramente a cercarne di diverse.
* Buone Notizie del Corriere della Sera, 3 dicembre 2019