Fin da quando Jean Pierre Mustier varò quasi tre anni fa il piano «Transform 2019» basato sulla ristrutturazione pesante del gruppo e la «crescita solo per via organica», tutte le analisi del mercato ruotavano attorno a una domanda: con chi si sposerà Unicredit? Che operazione tirerà fuori dal cilindro un banchiere d’affari come il 58enne francese?
Il mercato insomma ha sempre guardato oltre il pesante lavoro che Mustier ha effettuato da metà 2016: 13 miliardi di aumento di capitale, 7 miliardi raccolti con le cessioni della polacca Bank Pekao, dei fondi Pioneer e di una quota di Fineco, circa 20 miliardi di crediti deteriorati in meno, riduzioni di filiali e di dipendenti, spinta sulla redditività. I risultati si sono visti sul lato dei costi, ora ai livelli più bassi del sistema, e anche sulla redditività che è tornata attorno al 7%. Ma in Borsa il titolo ancora langue: quota 28 miliardi di euro a 12 euro circa per azione. Qualche eredità del passato continua a pesare: nei prossimi giorni Unicredit potrebbe accordarsi con il Dipartimento di Giustizia Usa per una multa da 900 milioni di dollari per transazioni effettuate dalla controllata tedesca Hvb con l’Iran.
A dicembre Mustier presenterà il nuovo piano industriale, per portare avanti il quale ha già rivoluzionato la prima linea di management eliminando il direttore generale e mettendo otto top manager come responsabili di tutte le attività dell’istituto. Questa volta le operazioni straordinarie potrebbero essere contemplate, anche per meglio posizionare il gruppo — la «banca commerciale paneuropea» — ai primi posti nei vari mercati d’Europa. La Germania potrebbe essere un terreno dove crescere, dato il mercato bancario estremamente frammentato, in mano a Landesbank e cooperative.
Potrebbe essere Commerzbank la preda ideale per Mustier? «Teoricamente dal punto di vista industriale avrebbe più senso di Deutsche-Commerz», commenta Mediobanca Securities, ma è «praticamente irrealizzabile». Nel settembre 2017 la banca italiana approcciò il ministero delle Finanze tedesco per sondare la fattibilità di una fusione — lo Stato tedesco ha il 15% di Commerzbank — ma i riscontri non furono favorevoli. Digerire la banca tedesca non sarebbe facile, spiegano gli analisti: la redditività è al 3,4%, la metà di Unicredit, i costi arrivano all’80% dei ricavi (in Unicredit al 54%) e il mercato del lavoro rigido renderebbe più difficili le famose «sinergie», stimate da Equita in 1,2 miliardi. Per di più lo scenario di tassi bassi gioca contro l’obiettivo di maggiori ricavi: in tal senso sono univoche le analisi di Jp Morgan, Santander, Kepler.
Il mancato completamento dell’Unione bancaria peraltro complica gli aspetti tecnici di un gruppo paneuropeo: i capitali non sono ancora liberamente spostabili da una banca nazionale all’altra all’interno dello stesso gruppo, come ben sa proprio Unicredit, che nei momenti più difficili della crisi in Italia non potè accedere alla liquidità di Hvb, bloccata dalla Bundesbank. Allo stesso tempo la Bce richiederebbe aumenti di capitale per puntellare il nascituro colosso da eventuali crisi future: per Unicredit-Commerz un banchiere d’investimento lo calcola in 4-5 miliardi di euro. L’altro grande matrimonio mancato di Unicredit è stato, l’anno scorso, con la francese Société Générale: oltre alle difficoltà tecniche pesarono i nuovi scenari politici con la vittoria di Lega e M5S e l’impennata dello spread che fece arretrare in borsa Unicredit dalla posizione di vantaggio che aveva su SocGen.
Le difficoltà di un’aggregazione in Europa le ha confermate ieri proprio il presidente del gruppo francese, Lorenzo Bini Smaghi: «Il problema è che per il momento in Europa non ci sono le condizioni, sia dal punto di vista dell’economia, sia della normativa e della politica. Oggi non è facile realizzare sinergie. Poi è necessario che il mondo della politica capisca che è meglio avere grandi player europei piuttosto che piccoli attori nazionali, anche se fragili».