«È un dossier all’attenzione del governo. Ci siamo riservati di approfondire quanto prima». Sono passate solo un paio di settimane da quando Giuseppe Conte, l’«andreottiano del cambiamento», prese solennemente quel vago impegno sull’autonomia delle tre Regioni che attendono di ricevere la gestione d’una serie di materie. Eppure, ad ascoltare le fibrillazioni all’interno dei leghisti, in particolare quelli che detengono il nocciolo duro del partito, i lombardi e i veneti, pare passato un secolo.
Lo riconosce, sia pure pesando le parole per non dar fuoco al pagliaio (la sua «bio» su WhatsApp è: «S’io fossi foco, arderei lo mondo») la stessa ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie Erika Stefani: «La prima domanda che mi fanno è sempre: allora, l’autonomia? La spinta è fortissima». L’ha detto e ripetuto anche l’altro giorno in Piazza del Popolo: «A quei milioni di veneti e lombardi che hanno chiesto l’autonomia bisogna dare una risposta. Sul mio tavolo ci sono ben 8 Regioni che hanno chiesto l’autonomia. E queste sono risposte che la politica e il governo devono dare. A un anno dal referendum noi i dossier li abbiamo aperti, noi le proposte le abbiamo fatte…». Ma?
Ma le risposte, ha fatto intendere, tardano ad arrivare. Come se potessero inquietare certe fasce di elettori pentastellati meridionali: e se poi si tengono «i schei»?
Ce rto, pochi giorni fa Luigi Di Maio è salito a Treviso a dire agli impazienti di star sereni: «L’autonomia del Veneto si deve dare il prima possibile, nei consigli dei ministri di dicembre…». La cessione delle competenze, però, soprattutto su certe materie come la salute o le infrastrutture, è assai più divisiva di quanto sia fin qui emerso. Nessuno ancora osa accusare certi ministeri di ostruzionismo. I lamenti per come le «macchine» dei dicasteri a guida grillina siano farraginose nel mettersi in moto, però, crescono giorno dopo giorno. Tanto più che dopo sei mesi di governo gialloverde la stessa impazienza ha contagiato tutte e tre le regioni in attesa.
La Lombardia leghista di Attilio Fontana, il Veneto leghista di Luca Zaia, deciso a dimostrare di non essere arrendevole affatto davanti a un governo «amico» («Se non ci danno l’autonomia, siamo pronti a riempire le piazze», tuonava poche settimana fa) ma pure l’Emilia-Romagna democratica di Stefano Bonaccini. Il quale ha scelto un percorso diverso dal referendum ma pare risoluto a non mollare di un millimetro. Men che meno davanti a un esecutivo ostile. Fatto sta che i tre sono costretti a chiedersi: di concreto, oggi, cosa abbiamo in mano oltre al pre-accordo firmato a febbraio da Paolo Gentiloni? Fossero tempi normali, amen. Un mese più, un mese meno… Ma il clima, c’entri o no Satana come pensa il capo gabinetto del ministero per la Famiglia, è così surriscaldato che le impazienze sulle autonomie rischiano di sommarsi a tutto il resto. Il braccio di ferro con l’Europa, quota 100, il reddito di cittadinanza, la legittima difesa… Incendiando ulteriormente i rapporti. Tanto più che su temi diversi vanno a mischiarsi gli stessi insofferenti delle aree più vivaci, produttive e arrabbiate del Paese. Dicono molto le parole usate da Vincenzo Boccia, già scottato dalle critiche per la mezza investitura di Matteo Salvini, dopo l’incontro di domenica in Viminale: «Per la prima volta da sei mesi questo governo ci ascolta, abbiamo dialogato. Ora però aspettiamo fatti».
Troppo presto, per mettere una pietra sopra alle tensioni di queste settimane. Dallo sfogo del presidente degli imprenditori vicentini Luciano Vescovi («Questa è una bocciatura integrale per la politica economica ed infrastrutturale del governo, senza sconti») alle mobilitazioni di Confartigianato, fino alle parole dure dei sindaci veneti (di destra) schierati come lo stesso Luca Zaia dalla parte degli imprenditori furenti. Soprattutto quelli medio-piccoli come Bepi Covre, già deputato della Lega e fiero di non aver mai licenziato neanche nei momenti più bui: «Siamo sgovernati. Avanti così e scoppia la tempesta perfetta».
Ed ecco le invettive contro il decreto Dignità colpevole secondo le associazioni d’impresa di far perdere dal 1° gennaio, con ogni probabilità, migliaia di posti dopo anni di crescita che avevano spinto il Veneto (dati: Osservatorio del lavoro regionale) al 67,2% di occupati cioè nove punti più che nel resto d’Italia. E quelle contro la burocrazia che asfissia le aziende al punto che secondo la Cna ci vogliono «71 pratiche per un bar, 86 per un’officina» senza alcuna svolta rispetto al passato. E quelle ancora contro la paralisi imposta alle infrastrutture sulla scia dell’idea di Danilo Toninelli che, al di là dei torti e delle ragioni, dei processi e delle condanne, è inchiodato a quanto disse poco prima del crollo del ponte Morandi: «Tajani e tutti gli altri che blaterano su Tav si mettano l’anima in pace. La mangiatoia è finita». Come se ogni ponte, ogni galleria, ogni cavalcavia, ogni strada siano stati sempre inquinati dalla corruzione. Tesi ribadita ieri dal titolo del Fatto sulla riunione al Viminale (questa sì discutibile) dopo la manifestazione No-Tav di Torino: «E Salvini chi riceve il giorno dopo? Gli affaristi del Sì». Tutti «affaristi»? Mah…
Dice il vicepremier grillino, in polemica col dirimpettaio leghista: «Ieri da lui c’erano poco più di dieci sigle, domani noi ne riuniamo oltre 30 di tutti i comparti. Ieri hanno fatto le parole e i fatti si fanno al Mise, perché è il Mise», cioè il ministero per lo sviluppo economico, «che si occupa delle imprese». Risposta del secondo gallo del pollaio gialloverde: «A me interessa la sostanza, io incontro, ascolto, trasferisco, propongo, miglioro poi a me interessa che il governo nel suo complesso aiuti gli italiani. Ognuno fa il suo». Campagna elettorale permanente. Se poi resterà del tempo…