Domani i sindacati italiani incontreranno i vertici di Fca e avremo maggiori elementi di valutazione sul destino che attende gli stabilimenti italiani del gruppo. Per ora i leader di Fiom-Fim-Uilm sottolineano con favore l’ingresso nel Cda di due rappresentanti del lavoro ed evitano di fasciarsi la testa anzitempo. Del resto nelle comunicazioni ufficiali di questi giorni Fca e Psa hanno offerto ampie rassicurazioni sul futuro dell’occupazione ma è chiaro a tutti che il 2020, solo per guardare vicino, si presenta come un anno assai difficile per il mercato dell’auto soprattutto in Europa. E di conseguenza si potrebbe da subito creare una contraddizione tra la conferma del perimetro produttivo dei due gruppi e i flussi di domanda di nuove vetture. Già qualche impianto sia francese sia italiano non è saturato e la tendenza si potrebbe allargare visto che comunque le rispettive quote di mercato dei due alleati sono segnalate in contrazione.
In questo dannatissimo caso ad avere maggiori difficoltà sarebbero gli stabilimenti, per parlare dell’Italia, che producono il segmento B e i motori e quindi Melfi e Pratola Serra. Ma prima di arrivare a questi discorsi — e quindi fasciarsi la testa — ci si deve chiedere che tipo di iniziativa il nostro governo pensa di assumere. Infatti il mercato dell’auto soffre anche perché ai potenziali acquirenti arrivano segnali contraddittori sulla gestione della transizione verso l’elettrico. La conseguenza è il rinvio dell’acquisto e quindi un maggiore rischio di riduzione dell’occupazione. Finora da parte del governo non sembra che ci sia una sufficiente valutazione degli scenari che si stanno aprendo. Il «tavolo auto» che si sarebbe dovuto tenere nei mesi scorsi ancora langue e il ministero dello Sviluppo economico appare privo di una bussola per quanto riguarda la conoscenza dell’evoluzione del mercato dell’automotive e gli strumenti che un operatore pubblico potrebbe/dovrebbe attivare. Se, invece, ai piani alti di Via Veneto ci fosse qualcuno con gli occhi aperti e le orecchie attente potrebbe mettere in cantiere un’operazione di politica industriale non solo difensiva.
Il caso della cinese Haier, che ha riportato in Italia la produzione delle lavatrici Candy, qualcosa ci suggerisce. La modifica del differenziale del costo del lavoro tra la Cina e l’Italia è una novità segnalata recentemente con forza da Romano Prodi e che deve far riflettere. Abbiamo infatti un’ottima qualità del manufacturing e un costo del lavoro che rispetto a Pechino si è ridotto a 1:2,5 tutto ciò mentre i dati ci dicono che nell’Europa orientale la manodopera è molto meno a buon prezzo di prima e noi, per una serie di motivi che sarebbe lungo analizzare qui, siamo comunque decisamente meno cari della Germania. Ergo un governo con i sensori funzionanti e la vista lunga lancerebbe un’operazione di back reshoring, di rientro delle produzioni. Per dirla con uno slogan: una, dieci, cento Candy.
Mi è capitato di sottoporre quest’ipotesi nei giorni scorsi ad alcuni economisti industriali e l’obiezione che mi è stata girata può essere sintetizzata così: non basta il riallineamento del costo del lavoro a far tornare indietro le produzioni se poi l’azione governativa procede per amnesie, incertezze, colpi di testa e voglia di statalizzare qualunque cosa. Ma è proprio per questo che è lecito chiedere una forte discontinuità al governo e alle sue componenti più attente alle ragioni delle imprese. Dimostrare che si vogliono affrontare i marosi del 2020 varando politiche ambiziose che possano farsi valere anche in senso anticiclico. È troppo sperare che avvenga?