L’Italia è a una resa dei conti e quasi tutto si gioca sulle pensioni e il sostegno alla povertà. Forse era inevitabile. Dopo la Grecia, abbiamo la percentuale di occupati più bassa nel mondo sviluppato e il 10% più indigente della popolazione controlla una fetta di appena l’1,8% del totale dei redditi, metà rispetto al resto d’Europa. Nel frattempo la riforma delle pensioni del 2012, resa necessaria dagli enormi squilibri del sistema e dalla crisi finanziaria, ha generato effetti unici in Occidente: un salto in avanti di sette anni dell’età del ritiro.
All’epoca tutto avvenne senza un’ora di sciopero, in una comunità nazionale terrorizzata all’idea che un default distruggesse i risparmi di tre generazioni. Neanche le persone in povertà assoluta sono mai scese in piazza mentre il loro numero si gonfiava da meno di due milioni nel 2005 a più di cinque l’anno scorso. Questi traumi però aprono fratture profonde che prima o poi tornano allo scoperto. Succede in questi giorni, con i piani di deficit che Luigi Di Maio (M5S) e Matteo Salvini (Lega) hanno imposto al governo. Resta da capire solo se questi siano credibili e se appaiano tali a chi ogni anno presta oltre mille miliardi a imprese, banche e allo Stato italiano.
L’equazione della crescitaTutto si fonda su un’equazione: aumentare la spesa pubblica per consumi e investimenti dovrebbe generare crescita, mentre a sua volta l’aumento del Prodotto interno lordo (Pil) in proporzione contiene il deficit e fa scendere il debito. Ieri in un’intervista al Sole 24 Ore, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha difeso così scelte che fino a giovedì scorso all’ora di cena non condivideva: un aumento della spesa per investimenti dello 0,2% del Pil secondo lui dovrebbe far salire il deficit fino al 2,4% del Pil nel 2019, ma non oltre perché farebbe accelerare la crescita all’1,6% l’anno prossimo e all’1,7% nel 2020. Dunque un’economia più robusta rende, in proporzione, più piccolo il debito pubblico e contiene al 2,4% fino al 2021 il deficit. Sul Fatto Quotidiano anche il ministro degli Affari europei Paolo Savona ha ripetuto lo stesso argomento, curiosamente dando numeri diversi: un aumento di spesa pubblica per investimenti dello 0,5% del Pil, più un altro 0,5% di Cassa depositi e prestiti dovrebbe far crescere il Pil al 2% nel 2019 e fino al 3% in seguito. In sostanza, l’impennata della spesa risanerebbe i conti pubblici ampliando la base dell’economia.
Gli effetti collateraliLa strategia funziona se le previsioni di crescita si realizzano, altrimenti fa esplodere il deficit e fa salire il debito a livelli pericolosissimi. È fondamentale dunque capire quante probabilità abbia l’economia di accelerare come pensa il governo. Il punto di partenza non è buono. Savona parla di «situazione che volge al peggio», Tria prevede una frenata ad appena lo 0,9% di crescita nel 2019 se non si cambia politica. Hanno ragione loro due: la produzione industriale in contrazione, la fiducia debole nel manifatturiero e l’occupazione in calo suggeriscono che l’Italia oggi sta crescendo non molto più di zero. Se questo è il punto d’ingresso nel 2019, una semplice legge statistica suggerisce che di questi tempi tra un anno l’Italia dovrebbe correre a ritmi annuali fra il 2,5% e il 4% semplicemente per centrare gli obiettivi di crescita annunciati dal governo. Probabile? Non troppo, dato che il tasso di espansione medio annuo dal 1995 è dello 0,5%: dovremmo correre fra cinque e otto volte più del nostro potenziale.
Se non ce la facessimo e gli obiettivi di deficit si allontanassero, la risposta del governo sarebbero allora tagli automatici di spesa, ma Tria non dice come e a danno di chi. Anche la logica appare contraddittoria. Se proprio l’aumento di spesa pubblica che dovrebbe far crescere il Pil e dunque rendere i conti sostenibili, non si capisce come dei tagli recessivi potrebbero ottenere lo stesso effetto. O l’uno o l’altro.
I canali finanziariTria dice che gli investimenti privati potrebbero affiancarsi a quelli pubblici, ma bisogna capire quanto sia verosimile mentre i rendimenti dei titoli di Stato salgono e il loro valore scende. Gli investimenti privati infatti sono finanziati dalle banche, e queste a luglio avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 380 miliardi di euro. La svalutazione di quei bond e l’aumento dei rendimenti provoca perdite per gli istituti, ne erode il patrimonio e ne alza i costi di finanziamento. Nel 2012 la Banca d’Italia stimò che ogni aumento dell’1% dei rendimenti dei titoli di Stato riduceva la crescita dei prestiti dello 0,7%. Oggi le banche stanno meglio che nel 2012, è vero, ma da inizio maggio i rendimenti dei bond sovrani sono saliti già dell’1,7%. Non a caso nella tempesta di giugno scorso sul debito pubblico, i prestiti alle imprese crollarono dell’8% rispetto a un anno prima. Per ora le banche hanno cercato di non trasferire troppo ai clienti gli aumenti dei costi ai quali si finanziano, ma presto dovranno alzare di netto i tassi sui mutui o i prestiti alle imprese, erodendo gli utili e il potere d’acquisto. Difficile crescere se sale lo spread, cioè lo scarto nei rendimenti fra titoli italiani e tedeschi. E da maggio lo spread è più che raddoppiato.
Senso unico?Dunque dovrebbe scendere perché la ripresa riparta e i conti di Di Maio, Salvini, Tria e Savona tornino. Può farlo? Fino a ieri due fattori lo avevano tenuto a bada: gli acquisti della Banca centrale europea e la speranza che Tria controllasse le pressioni di Di Maio e Salvini. Ma da stamattina il programma della Bce dimezzerà a livelli minimi gli acquisti per l’area euro e per l’Italia, mentre il carisma di Tria come cerbero dei conti si è appannato. Gli investitori dunque corrono molti meno rischi di bruciarsi puntando contro la carta italiana e lo faranno senza remore; lo spread resterà alto e il piano del governo di controllo del debito tramite la crescita in deficit rischia di saltare. A meno che non fosse tutto solo una foglia di fico sulla realtà di spese davvero eccessive.