È molto interessante tentare di studiare i rapporti tra la Lega e il suo elettorato del Nord composto per una buona fetta da imprenditori e partite Iva. Non è certo una novità, i Piccoli sono stati la constituency del Carroccio sin dalle origini e non a caso le istanze di rappresentanza del tempo di Umberto Bossi erano rivolte prioritariamente alla proposizione di temi come la riduzione delle tasse e la semplificazione delle procedure amministrative.
La Lega Nord aveva al suo interno un personale politico che spesso veniva direttamente dalla piccola impresa ma mancava di un software economico di alto standing, da qui il binomio che è durato moltissimi anni tra i lumbard e il professor Giulio Tremonti. Un binomio che aveva un obiettivo preciso: rendere compatibile l’esercizio della stretta rappresentanza di territorio con una visione economica di sistema (e quindi larga). È interessante ricordare poi un dettaglio: volendo e dovendo introdurre forze fresche nell’amministrazione, Tremonti non ha certo pescato tra i quadri della Lega ma ha portato a Roma in posizioni apicali dei giovani manager di buon curriculum individuati sul mercato e convinti a giocare un ruolo da civil servant.
DeviazioniMatteo Salvini, con tutte le differenze che ha introdotto nella Lega deviando dall’originario ceppo bossiano, ha tentato però di ripetere la stessa operazione: «comprare» software economico laddove al suo interno non ne possedeva. Non dimentichiamo poi che Salvini è milanese, viene dalla città e non dal contado e in virtù della sua formazione professionale a Radio Padania crede fermamente che la comunicazione sia un passepartout, l’arma totale della politica (un po’ come Matteo Renzi). Ed è portato invece a sottovalutare tutti gli elementi che riportano al tessuto economico-territoriale e al lavoro politico certosino.
Se Bossi però aveva ingaggiato Tremonti, Salvini ha portato nel cuore della Lega i Siri, i Bagnai e i Borghi. Il primo ha di fatto conferito al Carroccio la sua elaborazione sulla flat tax, i secondi hanno apportato le loro riflessioni (pessimistiche) sull’euro. E sembrano aver convinto Salvini che non c’è una terza via: o si è “succubi” del triangolo Bruxelles-Berlino-Francoforte oppure si deve decidere di ripudiare la moneta unica.
Voto e amministratoriLe elezioni hanno indubbiamente premiato la nuova versione del Carroccio targata Salvini perché il leader ha saputo sommare i consensi dei territori del Nord per lo più dovuti alla reputazione di buongoverno degli amministratori in camicia verde (l’ex governatore Roberto Maroni e l’attuale veneto Luca Zaia in primis) con i nuovi voti arrivati dalle altre Regioni e decisamente segnati dall’insistenza sui temi della sicurezza e del contrasto all’immigrazione.
Ma Salvini è stato ben attento in campagna elettorale a non sollevare mai il tema dell’uscita dall’euro, ha messo la sordina alle tesi sostenute da Bagnai e Borghi e ha preferito esibire le più rassicuranti ricette di taglio fiscale sostenute da Siri. La scelta si è rivelata cinicamente vincente, la Lega ha evitato di aprire quella che sapeva essere una contraddizione nel suo elettorato nordista e non ha fatto menzione di un piano di uscita dall’euro già studiato e predisposto. E arrivato infatti all’onore delle cronache solo in seguito, prima con la divulgazione della originaria bozza di contratto con i Cinquestelle e poi con la proposta di insediare l’euroscettico professore Paolo Savona al dicastero dell’Economia.
«Matteo lascia stare»Dal lato delle imprese, infatti, il cosiddetto piano B prevede di usare come nuovo regime di funzionamento la svalutazione competitiva della moneta. Tornare sostanzialmente al pre-euro quando la competitività del sistema Italia era per larga parte appoggiata sul prezzo, da poter maneggiare alla bisogna. Ma molte cose sono cambiate in questi anni e la Grande Crisi ha ridisegnato la piramide delle imprese italiane che oggi somiglia a un trapezio. Non c’è più un vertice fatto di molte grandi imprese e il lato superiore è rappresentato dalle multinazionali tascabili che si sono ristrutturate (in corsa) dal punto di vista dei costi, si sono allungate adottando lo schema delle filiere e hanno così recuperato molti gradi di flessibilità. Tutto ciò è stato speso per «salire di gamma», come si dice in gergo, ovvero per conquistare una posizione competitiva centrata sulla qualità del prodotto. E meno interessata quindi alla vecchia svalutazione competitiva. In più nel Nord si è estesa, grazie alle catene del valore, l’integrazione di una buona fetta del nostro sistema delle imprese con l’industria tedesca e la stessa adozione del format 4.0 — inventato da loro — ha ancor di più stretto i legami. Da qui la totale freddezza degli imprenditori nei confronti dell’ipotesi salviniana di uscita dall’euro e le reazioni negative che si sono avute nel test dell’assemblea confindustriale di Varese di sette giorni fa. Fino al consiglio di Roberto Maroni per l’amico Matteo: «Lascia stare l’euro, ti conviene».