Non sono più i prati di una volta: neppure a Pontida. Già lo scorso anno la Lega secondo Matteo gli aveva cambiato colore, passando dal buon vecchio verde padano a un modaiolo blu-Le Pen. E all’antico celodurismo bossiano aveva contrapposto un rassicurante slogan, “il buon senso al governo”, assicurando che sarebbe durato trent’anni. Non è sopravvissuto neanche un anno, ma in fondo non fa notizia: da quel palco, da sempre, il Capo di turno ha annunciato sfracelli e colpi di scena puntualmente evaporati nel nulla, accolto da regolari ovazioni. Che si sono ripetute pure ieri, stavolta al traino di un ecumenico “la forza di essere liberi”: liberi anche di mettersi all’angolo da soli, come ha fatto Salvini in queste settimane secondo commentatori di diverse parrocchie, compreso qualcuno della sua.
Finita la festa campestre, da oggi la Lega torna a passare dai proclami alle azioni: tra cui spicca il richiamo alla mobilitazione di piazza, già annunciata per il 19 ottobre, come inizio di una guerra massiccia e frontale. È nel suo pieno diritto, naturalmente, perché la piazza è sempre uno strumento di democrazia: dove peraltro si va per far sentire le proprie istanze, non per imporle. Le scelte competono a due luoghi in cui si usa non la voce ma la mano: le cabine elettorali e le aule del Parlamento. L’esperienza insegna che le piazze piene non coincidono con gli esiti del voto, anche se fa comodo a chi le convoca mescolare i due piani.
Una forzatura cui proprio Salvini si dedica con particolare impegno, continuando a presentarsi come portavoce degli italiani in contrapposizione col Palazzo. I numeri dicono ben altro: la Lega rappresenta il 17 per cento del 70 per cento degli italiani che un anno fa sono andati alle urne; e anche ad accreditarla del raddoppio assegnatole dai sondaggi, arriva al 33. Che vuol dire, in termini assoluti, 11 milioni di persone sui 46 milioni che hanno diritto al voto: una minoranza, consistente ma minoranza. Con un’ulteriore complicazione: quel 33 per cento potenziale, Salvini isolandosi l’ha messo di fatto in freezer; proprio come aveva fatto nel 1996 Bossi toccando un significativo 10 per cento, ma in nome di una secessione che l’aveva posto nell’angolo.
Non a caso il “senatùr” avrebbe poi riallacciato i fili con Berlusconi, passando disinvoltamente sopra a vagonate di insulti ed accuse, di cui Pontida è stata ripetutamente cassa di risonanza. Oggi, il “capitano” fa altrettanto, con quel centrodestra che per mesi aveva ripudiato.Sta alla Lega come partito, dotato di ampio radicamento e di una collaudata classe dirigente, scegliere se tornare a essere un luogo di confronto politico interno ed esterno, o lasciare al suo capo la delega totale che si è autoattribuito. Ispirandosi, verosimilmente senza averlo mai letto, a un pensiero di Brecht: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo.