Se l’autobiografia è un genere ibrido e per sua stessa natura multiforme, Hans Tuzzi, nel suo nuovo romanzo, Nessuno rivede Itaca (edito da Bollati Boringhieri), abbandona il giallo e sperimenta l’infinita plasticità della memorialistica.
Il suo protagonista, il musicista cinquantenne Tommaso, riceve una scatola da parte di un amico di famiglia, Massimo, morto da poco. Si tratta di una raccolta di ricordi che include cartoline, lettere, stralci cartacei di passato, accompagnati da un manoscritto dedicato proprio a Tommaso. Un romanzo? Molto di più: uno scritto che riflette la tirannica creatività del suo autore, che attraversa anni di storia raccontando di sé, di quel che è stato e di quel che sarebbe potuto succedere.
I trent’anni che separano Massimo dal più giovane Tommaso si aprono a considerazioni che spaziano dalla storia alla società, dall’arte alla bellezza fisica, dalla filosofia alla letteratura, al cinema, alla biologia; e poi c’è la vita, costellata di esperienze che hanno travolto Massimo con passioni manifeste e incontri furtivi.
Massimo ha sempre parlato di sé denunciando la propria diversità: “Lo ero per ragioni troppo intime, dunque incomunicabili. Incomunicabili, anche, perché troppo offensive per gli altri. Ero diverso. E la mia diversità voleva spazio e ombra” (p. 29). E per questo Massimo ha rinunciato a una famiglia e a un legame fisso, scolpendo invece “i particolari della propria leggenda” (p. 34).
Alcune pagine lasciano pensare al memoir di un libertino impenitente, ma l’inquieta capacità di pensiero di Massimo rende i suoi corsivi – così vengono resi graficamente i brani tratti dal manoscritto – perturbanti, profondi e acuti.
Non esistono limiti di spazio o confini di argomenti da trattare: Massimo spazia, compie un estremo esercizio di libertà linguistica (un esempio possono essere i calchi e i prestiti linguistici) e di contenuto (ora ondivago ritorno a brani precedentemente trattati o a esperienze condivise con Tommaso, ora segnato da imprevedibili cambi di argomento).
Sperimentare e spiazzare Tommaso (e i lettori) vanno a braccetto; d’altra parte, a pagina 169 leggiamo una riflessione di Massimo che potremmo accostare all’intero romanzo: “il politicamente corretto non è compatibile con l’arte – nemmeno con l’intelligenza”. Massimo sa come essere controcorrente, come deviare dalla classica narrazione autobiografica e interpolarla con citazioni letterarie, metaletterarie o con loro echi, giocando con il passato in tutte le sue forme.
E Tommaso? L’uomo non ha un ruolo ancillare: non si limita a leggere e a commentare quel che scrive l’amico di famiglia, né si pone a confronto con la mente di Massimo, che ha sempre esercitato istintiva ammirazione su di lui (“Ero adolescente, seguivo da lontano i loro discorsi e Massimo aveva per me il misterioso fascino della lontananza”, p. 202). Piuttosto, Tommaso, che possiamo immaginare in un ascolto ammirato, segna con Massimo un vivace contrappunto: spesso il manoscritto diventa occasione per proprie riflessioni sulla propria giovinezza e ricordi di quel che è stato.
Il trait d’union tra i due uomini è la scrittura, grazie alla quale si stabilisce un dialogo ideale che supera il tempo e i limiti della morte. I due si parlano attraverso il tempo: Massimo esplora gli anni Sessanta, decennio in cui è nato Tommaso, con la scaltrezza dei suoi trent’anni, parla di incontri con artisti e figure di una certa rilevanza sempre con il suo sguardo da intellettuale, mai spensieratamente (e proprio il personaggio arriva ad ammettere: “Aspiro alla leggerezza, da sempre, inutilmente. E vorrei essere nato in un altro e meno angusto Paese”, p. 235). E Tommaso confronta la sua idea di giovinezza, il suo essere sciupafemmine e inafferrabile con le esperienze omosessuali di Massimo. Gli interrogativi lanciati dall’amico risuonano di un’eco che non sempre trova risposta, perché spesso Massimo getta una luce diversa sul reale, illuminandolo da prospettive nuove.
Poi, certo, alcune domande restano sospese, perché non c’è pace per chi si chiede perché la giovinezza sia una Itaca irraggiungibile, dove non esiste possibilità di ritorno, se non attraverso il suo ricordo:
“E noi, noi quale prezzo abbiamo pagato, per crescere? E cosa vedo, se adesso mi volgo indietro, adesso, quando davanti a me vi è solamente l’orizzonte brumoso della terra dai cui confini soltanto Lazzaro fece ritorno? L’infanzia, la giovinezza… il prologo a tutto ciò che non è stato. O è stato in modo diverso” (p. 278).
E se all’Itaca della giovinezza non si potrà mai davvero approdare, Hans Tuzzi mostra come la narrazione possa sbattere sulle sponde di più generi, senza mai naufragare: l’organicità, che potrebbe apparire in un primo momento messa a repentaglio dal susseguirsi spesso imprevedibile di sequenze e argomenti, è garantita dai due protagonisti, che si fanno filtro della narrazione, vite che – semplicemente – vogliono raccontarsi seguendo il diritto di esercitare liberamente il pensiero, inerpicandosi tra i propri ricordi di sé, dell’altro e del tempo.
*Da illibraio.it, 18 Maggio 2020