Cernobbio ha fretta. Sin dai primi commenti degli imprenditori convenuti all’annuale meeting Ambrosetti l’impressione è stata che il mondo del business, e per estensione le élite, volessero mettersi alle spalle l’ultima stagione politica e voltar pagina il più presto possibile. Un sentimento che è comprensibile ma ha due punti deboli. Primo: esagera la discontinuità del Conte 2 che per ora è solo un governo «di sollievo».
Secondo: contiene in sé il rischio di riprendere «i discorsi di prima», come se niente fosse cambiato nel frattempo. La stessa considerazione vale per gli equilibri europei, gli speaker stranieri di Cernobbio festeggiando lo scampato pericolo tradiscono anch’essi la voglia di girar pagina di botto ma la prima impressione è che molti di loro finiscano immediatamente per incorrere negli stessi errori, proprio quelli che avevano concorso a spalancare le porte al populismo.
Prendiamo la politica in senso stretto. Non c’è dubbio che sovranisti e populisti abbiano stravolto il modo di relazionarsi agli elettori seguito in precedenza dalle coalizioni di tipo tradizionale. Il primato assegnato alla comunicazione ha rivelato sicuramente i suoi limiti ma come la famosa talpa ha scavato e in profondità. Le opinioni pubbliche, loro malgrado, hanno imparato a «consumare politica» in maniera assai diversa dal passato e tutto ciò non si cancella facilmente. Penso non solo all’utilizzo di differenti piattaforme (le dirette Facebook invece delle interviste, i tweet invece dei comunicati) ma anche alle tecniche più spregiudicate. L’uso del capro espiatorio, la volontà di apparire simili in tutto all’italiano medio comprese le debolezze gastronomiche, la modalità della campagna elettorale continua sono tutte novità che hanno determinato spostamenti di consensi con una velocità inedita. Nessuno evidentemente suggerisce ai frettolosi un copia e incolla, né di operare una mutazione genetica della propria cultura politica ma di riflettere sulla «dittatura» della comunicazione, prima di rituffarsi nello spreco quotidiano di interviste, questo sì. C’è molto da reinventare ma è un compito affascinante, non un’umiliazione.
Un secondo elemento riguarda il rapporto tra presente e futuro. Gli europeisti sono razionali e ottimisti, ragionano e progettano muovendosi per scenari, più la palla viene buttata lontano più loro si esaltano. Rifiutando la politica take away non devono però regalare il presente ai sovranisti. Fuor di metafora il presente è fenomenologia del reale, è ricognizione continua di ciò che avviene, è analisi delle contraddizioni e insieme capacità di affrontarle prima che diventino materia della propaganda degli avversari. Non sto chiedendo che un sociologo venga chiamato a parlare a Cernobbio (è più facile che il ricco passi per la cruna dell’ago) ma che le élite seguano i movimenti della società anche se smentiscono i loro scenari. La straordinaria avanzata di Matteo Salvini grazie alla parola d’ordine dei porti chiusi non parte proprio dal fatto che le forze dell’accoglienza avevano sottovalutato ansie e contraddizioni della società italiana davanti al tema dell’immigrazione? Così quando dai nuovi governanti italiani sento parlare di riformismo radicale divento pensieroso: se proprio dovessi aggiungere un aggettivo a quel sostantivo sceglierei «efficace», perché in Italia non sono mancate le riforme ideologiche ma la capacità di produrre reali svolte nelle culture e nei comportamenti.
La verità è che la lunga scia della Grande Crisi ha scucito la nostra società, ha accentuato tutti gli elementi di divisione e quelli che una volta eravamo abituati a chiamare «mondi» oggi ci appaiono come delle tribù. Per ricucire il tessuto civile la politica da sola non può farcela, avrebbe bisogno di mani forti attorno a sé ma purtroppo l’azione delle grandi agenzie pedagogiche (la scuola, la Chiesa, le associazioni, i giornali) si è slabbrata nel frattempo. Rimontare senza di loro è pressoché impossibile, il vero ribaltone è un’operazione che si fa in tanti, non in pochi. E la fretta non aiuta.