«Disciplina senza sottomissione». Secondo Penelope, la disciplina non è cieca obbedienza né dipendenza ossessiva. Non è uno stile di vita regolare: «Ero attentissima a quello che mangiavo … e poi fumavo un pacchetto di Lucky Strike al giorno, per non parlare degli alcolici». E neppure un rito quotidiano di gesti necessari per affinare qualsiasi arte: «Il riscaldamento, un dovere preparatorio che mi ha sempre annoiato. Tutte le fasi preparatorie mi hanno sempre annoiato; quelle per cui ci vuole pazienza, per cui bisogna saper aspettare, rispettare i tempi prestabiliti. La pazienza non è mai stata una mia qualità». In sintesi, la disciplina, secondo Penelope non è stare alle regole: «Se fossi stata alle regole, un sacco di cose non sarebbero accadute. Molte cose pessime ma anche alcune cose buone»
L’ex pubblico ministero Penelope Spada è l’ideale femminile di Gianrico Carofiglio. Una sorta di donna angelicata all’incontrario, perché è tutt’altro che un tipo angelico: una ex atleta piuttosto dura con se stessa, anzi «dura con tutti», che si sposta in moto, ascolta la musica di Nick Cave e dei Guns’n’Roses e si allena facendo flessioni ai giardinetti. Una che veste sempre uguale, anche se potrebbe permettersi qualsiasi stravaganza, senza alcuna cura per la sua immagine – e infatti Carofiglio non ce la descrive mai. Uno spreco? «Io sono specialista in sprechi». Oltre alla notevole forza fisica – «in realtà, anche se in pochi lo capiscono, la forza è un’abilità» – Penelope vanta «una diffidenza implacabile e distruttiva», ma soprattutto un’intelligenza tagliente e capace di geniale empatia e del pensiero trasversale che fa parte del bagaglio di ogni detective che si rispetti.
Il fatto è che l’intelligenza talvolta non aiuta: «La nonna diceva che le cose più stupide le fanno le persone più intelligenti. Le persone molto intelligenti fanno errori catastrofici non nonostante la loro intelligenza, ma proprio a causa della loro intelligenza». Nulla di nuovo, è l’antico problema dell’«hubris». Non sappiamo qual è l’errore catastrofico che ha cambiato la vita di Penelope, interrompendo la sua carriera a Palazzo di Giustizia – il libro non lo dice, ma il libro è chiaramente solo l’ouverture di una sinfonia che Carofiglio sta preparando sulla sua Penelope – resta il fatto che adesso passa la vita tra notti con sconosciuti, troppe sigarette e troppo Jack Daniels. D’altronde «ognuno trova la sua strategia per non andare in pezzi».
Finché un giorno si presenta da lei un uomo che è stato indagato per l’omicidio della moglie. Lui è per sua stessa definizione «un mediocre» non per nulla si chiama Mario Rossi, e lei invece era una donna «incline a cercare il limite, insoddisfatta» che sfogava le frustrazioni sul marito. Il caso si è chiuso con l’archiviazione ma non ha cancellato i sospetti e Mario Rossi cerca il colpevole per riscattare l’onore perduto e sapere cosa rispondere alla sua bambina quando, da grande, chiederà della madre. Penelope decide di aiutarlo, incuriosita suo malgrado dal suo modo di esprimersi accurato: sa fin troppo bene che è il non detto a rovinare le nostre vite e che per andare avanti bisogna dare volti e nomi al male: «il più potente degli psicofarmaci è un buon vocabolario» dice la sua terapeuta citando Macbeth: «Il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi».
Ad affiancarla nelle indagini, due residui degli anni in cui faceva il pm, fedeli ad oltranza: il vecchio cronista di nera Filippo Zanardi, un ex bell’uomo «con occhiaie profonde e scure, occhi sempre arrossati per le troppe sigarette, i troppi bicchieri, le troppe notti senza dormire» e il vecchio poliziotto Rocco «Mano di Pietra» Barbagallo. Intorno a loro «una Milano livida, attraversata da luci impure»: non la città segreta e un po’ nostalgica di chi ci è stato bambino, ma quella della gente che corre e produce, dei bar, della metro, dei pranzi di lavoro e dell’adrenalina in vena.
Alla fine, come in ogni storia che si rispetti, Penelope trova l’anima gemella che le insegna come la miglior disciplina sia prendersi cura di un altro. Anzi, di un’altra, il cane Olivia, «bella senza vanità, forte senza arroganza, coraggiosa senza ferocia» direbbe nel suo epitaffio Lord Byron. Disciplinata e mai sottomessa. Guardando Olivia, bestia «dall’aria buffa e letale», con il suo modo di essere nel mondo personalissimo e fiero, le appare improvvisamente «un’intuizione e, forse, un insegnamento»: la possibilità di controllo senza dover chinare la testa. Eccola, La disciplina di Penelope: il primo atto si chiude con Penelope e Olivia, insieme ai giardinetti per fare le flessioni: due cattive ragazze e la città.
* La Stampa, 30 gennaio 2020