Probabilmente la penna giornalistica più raffinata da leggere in questi anni – si può dire pacificamente anche se è un amico e un collaboratore di Studio – Michele Masneri è appena tornato in libreria con un secondo libro, non un romanzo questa volta, ma una raccolta di articoli e saggi. Se il suo esordio romanzesco, Addio, Monti (minimum fax), si poteva leggere come un reportage sul sottobosco culturale e mondano della Roma di inizio declino, i reportage di Steve Jobs non abita più qui (Adelphi) si leggono quasi come un romanzo, un racconto unitario e appassionante del luogo che negli ultimi vent’anni è stato l’epicentro della trasformazione globale delle nostre vite: la California e in particolare San Francisco e la Silicon Valley, fotografati proprio nel momento in cui l’apogeo era appena superato e da lì in poi (il 2016-2017) sarebbero iniziati i guai e i problemi, le grane di Zuckerberg, l’ascesa di Trump e via dicendo. Dentro ci si trovano anche il racconto spassoso e istruttivo di come funziona e quanto sia avanzata la comunità Lgbt nella città che nelle parole di Masneri è «un parco a tema dei diritti», e bellissimi ritratti e interviste a personaggi come Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare com’è nato il libro e per parlare d’Italia e d’America.
Sono andato a vedere e il tuo primo libro, Addio, Monti, è del 2014, devo dire che me lo ricordavo più vecchio invece sono passati solo sei anni, che differenze ci sono con allora?
Beh è diversissimo, allora avevo delle aspettative magiche, tipo “mi licenzio, tanto c’è il libro e campo con quello”, adesso no, come dice Alberto Sordi: «Ho l’energia di un ragazzo ma la testa di un uomo».
Prima minimum fax, poi Adelphi, scrivi al Foglio, è uno dei percorsi più cool che si possano fare in Italia.
Io che ho il complesso dell’impostore sono convinto che il fatto che mi abbiano pubblicato sia un chiaro segno del decadimento di Adelphi.
Ma si può dire che la ricerca della coolness sia sempre stata un po’ un pallino nelle cose che scrivi, nei personaggi che racconti, dalla letteratura al design, questa cosa di individuare e definire il “cool italiano”… Visto che il tuo libro parla anche di cool americano, ci sono differenze?
Mi interessa raccontare la borghesia più che altro, che è una cosa sempre più strana. Oggi un borghese romano è diverso da un borghese milanese o americano. Se parli con un giovane intellettuale romano e con dei giovani intellettuali milanesi o americani, il milanese è molto più simile a un losangelino che a un romano. Ormai è tutto diverso, ieri sera sono andato a Monti e sembrava di stare a Cuba, c’era della gente vestita come le élite dell’Avana. I social network ci hanno dato la sensazione di essere tutti sullo stesso piano, per cui è possibile che un italiano partecipi a una discussione tra due intellettuali americani pensando di essere sullo stesso piano, ma in realtà continua a essere indietro di vent’anni.
Quindi sei andato a San Francisco e hai scritto questo libro per raccontare i nuovi borghesi?
Io ero andato lì con due motivazioni, una che stavo morendo di depressione a Roma, sia personale che politica, è una città in cui tutto è dato per scontato e dove la famiglia più giovane viene dall’Ottocento. La seconda è che volevo conoscere un posto che fosse più libero, più avanzato nei diritti, e diciamo che la California ha mantenuto le aspettative in tutti e due i sensi, è stato veramente uno shock, tanto lì è tutto nuovo e leggero, quanto qui si sente la pesantezza dell’italianità e della conservazione.
Nel libro mantieni comunque un atteggiamento ironico e di dubbio filosofico che tutta questa libertà alle volte sia un po’ esagerata, mi riferisco in particolare a quella che è forse la parte più riuscita e divertente del libro, quando parli della comunità Lgbt di San Francisco.
Diciamo che mi sentivo un po’ a cavallo tra queste due culture: quando stavo lì, mi sentivo molto italiano, come succede penso a tutti dopo un po’, e quando sono tornato qui mi sentivo che comunque quella parte lì c’era e qua non era considerata. Certo a San Francisco tutta la cosa queer è al massimo, è come per un ebreo essere in Israele, credo, è una specie di parco a tema dei diritti, che per me sono belli, positivi, rispetto a un Paese in cui siamo al Medioevo. Poi certo, è vero che c’è una certa mancanza di critica, per dire a una cena ho detto che lavoravo per Trump e mi stavano prendendo a mazzate in testa e quando ho spiegato che era uno scherzo, non rideva nessuno, non si può scherzare diciamo, e a volte quella cosa lì pesa. Ma poi sono tornato a Roma e durante alcune cene con direttori di giornali in pieno #MeToo sentivo dire cose tipo “ma tanto si sa che queste sono tutte mignotte” o “quella c’ha due tette così”, anche con una volgarità di linguaggio incredibile. Una delle cose positive del politicamente corretto è la pulizia del linguaggio. Basterebbe trasformare l’espressione “politicamente corretto” in “buona educazione” e penso che saremmo tutti d’accordo.
Visto che sei considerato e credo ti consideri tu stesso un discepolo o un erede di Arbasino e che Arbasino è stato uno dei primi intellettuali italiani a coltivare un rapporto non filtrato dal pregiudizio di curiosità e di interesse nei confronti dell’America, com’è cambiato secondo te il rapporto tra gli intellettuali italiani e l’America?
Quel pregiudizio è completamente sparito, mi pare, ma è vero che è stato fortissimo, si nutriva di cose di terza o quarta mano, se pensiamo che Vittorini, che pure ci ha fatto conoscere l’America, in America non c’era mai stato. Come diceva proprio Arbasino non è che fosse poi così complicato, invece di andare per l’ennesima volta in Russia, si poteva andare in America.
E cosa ci ha insegnato l’America dal punto di vista culturale secondo te?
La leggerezza, non nel senso della leggerezza calviniana, che sempre secondo Arbasino è uno degli scrittori più pesanti al mondo, ma l’idea che si può parlare di tutto, che è tutto sullo stesso piano ma in senso positivo, che si può parlare di trash o pop con la stessa cura con cui si scrive di cose serie. Non c’è la seriosità che in Italia c’è ancora molto. Il new journalism non sarebbe potuto nascere in Italia. Gli articoli di Truman Capote su Agnelli… In Italia credo che venivi espulso se facevi cose del genere. Perché in Italia se vuoi essere preso sul serio, devi prenderti sul serio. Lo vedi anche oggi. Lo scrittore vero dev’essere uno incazzato, che dice cose serie.
Questo è vero, il paradigma dello scrittore impegnato ha funestato l’Italia, però mi sembra che oggi sia richiesta una fortissima dose di impegno anche agli intellettuali americani.
Penso che quello che sta succedendo in America sia semplicemente una rivoluzione, che ha come tutte le rivoluzioni dei lati criticabili: anche la Rivoluzione francese ha avuto il terrore, ma nessuno si sognerebbe di dire che è stato un errore. I russi nel 1789 saranno stati lì a dire “ah che sfigati questi francesi”, oppure “adesso non si potrà fare più la caccia alla volpe” e si sono tenuti gli zar per altri cent’anni. È chiaro che in questo nuovo attivismo, cancel culture, politicamente corretto, o come lo vogliamo chiamare, c’è anche una lotta di potere, nuove generazioni si stanno facendo avanti e magari alcuni di queste stanno usando metodi poco corretti. Però io lo trovo un cambiamento eccitante e penso che i critici siano per la maggior parte, ecco non vorrei usare la parola “boomer”, ma forse è il caso di usarla, gente che si caga sotto perché pensa “qua il prossimo sono io”.
Quindi Bret Easton Ellis, che incontri in un pezzo molto bello presente nel libro, quando dice che un certo tipo di attivismo limita la libertà d’espressione e condiziona l’espressione artistica sta segnalando un pericolo che non esiste realmente?
Secondo me no, quando l’ho incontrato, tra l’altro proprio per un pezzo che dovevo scrivere per Studio, era in piena decadenza, scriveva questi filmetti così… Ovviamente è una persona super intelligente però era un po’ fuori dal sistema e poi ha scritto Bianco ed è ritornato improvvisamente centrale. L’ho anche rivisto recentemente a Roma, non so, io credo sia uno che non aveva più molto dire e questa cosa qui gli ha spianato la strada. A me sembra che gli Stati Uniti stiano facendo i conti con il loro passato e che da questa cosa qui stiano venendo fuori un sacco di energie anche dal punto di vista narrativo. Per me Transparent è una delle cose più belle degli ultimi anni. Mi interessa di più conoscere storie della comunità transgender che altri 50 anni di storie della borghesia tradizionale americana. E una cosa non esclude l’altra comunque.
Cosa pensi di come questo dibattito è stato riportato in Italia?
A me fa molto ridere, è come se ci fosse quest’orologio fermo a vent’anni prima. Se tu prendi La macchia umana di Roth, che è del 2000, lui allora già criticava le storture del politicamente corretto, in questi vent’anni gli Stati Uniti hanno fatto un percorso. Il discorso sul politicamente corretto in Italia invece è “ah, non si può più dire frocio, non si può più dire negro”, quindi in sostanza stiamo rimasticando un discorso di vent’anni fa perché nessuno vuole veramente leggersi le cose. Sono cose sentite, origliate. Se tu giri un po’ nel famoso Paese reale, tutti ti dicono di essere politicamente scorretti pensando di essere dei gran fighi, senza però avere mai avuto il politicamente corretto. Si sentono storie in continuazione… Il primario che dà del frocio al paziente sul tavolo operatorio, il barone universitario che mette le mani sul culo della studentessa tutti i giorni. Quando sono tornato da San Francisco, sono diventato il solito marziano di Flaiano, ero un po’ californiano ed ero infrequentabile, andavo a queste cene di intellettuali e alla terza volta che sentivo dire “frocio”, dicevo «scusa, ma perché?». Io vedo una gran pigrizia in questa voglia di non cambiare. Una mia amica americana venuta a Roma dopo qualche giorno mi ha detto: «Ah che bravi, avete sconfitto Uber». Le ho detto: «No, non è mai arrivato».
Tra l’altro mentre in America qualche manifestazione di “cancel culture” c’è stata, vedi casi Allen o Spacey, in Italia non mi sembrano ci siano casi paragonabili.
Ma noi siamo così, siamo il Paese del complesso di colpa per il successo senza aver avuto il successo, quello degli antidivi senza avere avuto i divi, il discorso contro la gentrification in città distrutte dove la gentrification non è mai arrivata, il politicamente corretto o la cancel culture sono mai arrivati? Dove sono?
Tornando al tuo libro, si è sempre detto in passato che San Francisco era la città più europea d’America o quella più comprensibile da un europeo, ma è ancora così?
No, anzi è la la più incomprensibile. E innanzitutto per la struttura sociale. Il costo della vita è talmente alto che ci sono solo miliardari e homeless e il nulla in mezzo. Non ci sono più, che ne so, un avvocato, un professore, un artista. Non esistono neanche giornalisti. Solo giornalisti tecnologici. È una città che è diventata abbastanza monoculturale. Los Angeles è molto più europea, se vogliamo chiamarla così.
Strano perché Los Angeles è sempre stata la città delle grandi strade, della vita in macchina.
Sì, anche quello lì è uno stereotipo, a parte che vivendo a Roma lo stare in macchina mi fa sentire molto a mio agio, ma non è neanche vero, ci sono interi quartieri dove puoi girare a piedi, c’è molto verde, secondo me è molto più a misura d’uomo Los Angeles.
Ma quando eri lì quante app avevi scaricato sul telefono?
Tantissime, la cosa divertente è che lì funzionano meglio, hanno delle funzionalità più specifiche, anche Google, c’è una app per tutto. A San Francisco, c’è questo problema del clima, hai presente la famosa frase di Mark Twain che dice «l’inverno più freddo della mia vita è stata un’estate a San Francisco»? A San Francisco c’è la bora, è stato un posto giustamente disabitato fino a metà dell’Ottocento, sta in una baia ventosissima, le balene, l’acqua a zero gradi, nessuno ci voleva abitare fino a quando hanno scoperto l’oro. Rimane questo vento bestiale, che cambia da quartiere a quartiere. E c’è questa app che si chiama Mr. Chilly che ti dà la temperatura da quartiere a quartiere, ma tipo che in un quartiere ci sono 10 gradi e in un altro 35. Per cui io stavo col piumino a bere cioccolata calda e mi chiamavano gli amici da Mission che si facevano il bagno in piscina e mi dicevano «vieni che facciamo il barbecue».
Ti manca non stare più lì? Hai mai pensato di trasferirti?
Sì mi manca molto, ma trasferirsi no, perché appunto costa troppo e questo clima, per chi è abituato al clima mediterraneo, è duro, la nebbia, l’oceano che ti infastidisce perché sta lì ma non puoi farti il bagno, con gli squali, le alghe velenose… Una volta sono andato a fare il bagno a Big Sur ed è stato un incubo, c’è il coyote, il serpente a sonagli, un’alga micidiale che ti irrita tutta la pelle, dopo un po’ ti viene voglia di andare a Cesenatico. A un certo punto ho iniziato ad andare sempre più spesso a sud, verso Los Angeles appunto, e lì sì, è veramente il posto più bello del mondo.
Lo startupparo più figo di tutti chi è?
Io ho una passione per Travis Kalanick. Si è inventato Uber con un successo clamoroso, e da lì in poi ha veramente sbagliato tutto. Come scrivo nel libro, il #MeToo è nato con Uber, con quella dipendente mobbizzata, che poi si è licenziata e da lì è successo tutto il casino, perché Uber era una compagnia molto maschile. Facevano queste feste a Miami tipo Wolf of Wall Street, con mignotte, cocaina, qualunque cosa, e lui se ne è sempre un po’ fregato della comunicazione. Ma a un certo punto non gliene è andata più bene una, una sera era con una tipa in Uber che aveva appena diminuito le percentuali di guadagno degli autisti, e l’autista ha iniziato a fargli un pippone micidiale sul fatto che gli avevano diminuito la paga. E lui, miliardario fondatore di Uber, è stato mezzora a spiegargli i motivi e naturalmente questo video montato e tagliato lo ha fatto diventare razzista, privilegiato. A un certo punto pure la madre è finita in un naufragio con morti in un battello. Poi è stato estromesso e lui, con un colpo di coda pazzesco, si è inventato questa cosa delle ghost kitchen, i ristoranti che funzionano solo per il delivery con i rider, e tutti hanno detto “poveraccio che brutta fine che ha fatto” e invece col Covid ha avuto un successo incredibile.
Visto che tutti si arrogano il merito di averti scoperto, com’è iniziata la tua carriera?
Volevo fare la carriera diplomatica. Feci scienze politiche, una tesi assurda sul diritto del mare, per cui feci questo stage di 6 mesi ad Amburgo, al tribunale del diritto del mare.
E anche qui ti incroci con Arbasino, che ha iniziato studiando diritto internazionale…
Sì questa cosa mi ha rovinato per sempre, con lui ci scherzavamo sopra. Anche perché lui aveva scritto dei commentari. Ti ricordi quei manuali tremendi della Cedam? E lui aveva fatto il commento tecnico alle Convenzioni di Ginevra del diritto del mare, che io avevo studiato. Ero destinato a una brillante carriera di specialista in diritto del mare, poi ho fatto il concorso per la carriera diplomatica, dove mi hanno giustamente bocciato per due volte e avevo come professore il consigliere diplomatico di Andreotti, si chiamava Pastorelli, un pazzo scatenato che mi disse la famosa frase: «Lei non sa niente, ma sa scrivere bene, deve fare il giornalista». E allora lì è partito tutto.
E quindi hai iniziato a scrivere?
Sì, prima sul Riformista e poi sul Foglio, cose noiosissime di economia.
E ti ricordi il primo pezzo non economico che hai scritto?
Andai a fare un reportage a una cosa politica mondana romana, e lì feci il classico pezzo di architettura e potere, che piacque. Per Studio il primo pezzo che scrissi era su Eataly, Farinetti.
Visto che sei da sempre interessato al tema, prendi il tuo pezzo su Milano di qualche mese fa, molto girato, amato e odiato, come vedi ora l’evoluzione del rapporto tra Milano e Roma?
Ho una grande solidarietà per Beppe Sala, sono tutti riposizionati adesso, anche l’ultimo blogger di Lambrate dice che Milano non va più bene, quindi forse è il momento buono per trasferirsi. Ma quello che vedo è che Roma sta riacquistando centralità, intanto perché la direzione è chiaramente sudamericana, tutto statalizzato, Alitalia che diventa pubblica, e adesso che arriveranno tutti questi soldi pubblici non è che saranno destinati a investimenti privati, tecnologici del Nord, finiranno a clientele, startup di Frosinone, quindi Roma riacquisterà rilevanza, lo vedo proprio in questi giorni, tutti con una ritrovata vitalità, tutti che escono, tutti in giro. Sto leggendo questo bellissimo libro di Naipaul, questi reportage sul Sudamerica negli anni ’70, Il ritorno di Eva Perón, e sembra proprio l’Italia quando dice per esempio che in Uruguay la compagnia di bandiera aveva diecimila dipendenti e un solo aereo funzionante. A parte gli scherzi, un po’ di sudamericanizzazione ci sarà e quindi Roma rivivrà una sua stagione fantastica e l’Italia camperà per i prossimi vent’anni con questa nuova ondata di soldi.
*Da Rivista Studio, 30 Luglio 2020