Il fenomeno della media impresa come traino del made in Italy sui mercati internazionali ha trovato in questi ultimi anni ampio spazio sui mezzi di comunicazione. I «campioni nascosti» che propongono con successo il prodotto italiano nel mondo sono stati oggetto di attenzione crescente perché hanno dimostrato di saper interpretare in modo originale l’evoluzione dei mercati e di disporre delle leve necessarie per inserirsi nei processi di divisione del lavoro a scala globale.
Oltre i vecchi «distretti»
La gran parte di queste imprese Champions è decisamente più grande, in termini di fatturato e di addetti, rispetto alle piccole imprese che avevano fatto la fortuna dei distretti negli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Limitare il loro successo a ragioni strettamente legate alla dimensione, tuttavia, rischia di essere un’interpretazione riduttiva. È chiaro che l’aumento di margini e fatturato ha aiutato il loro processo di digitalizzazione e la loro capacità di innovazione. Ciò che rende queste imprese interessanti è, in realtà, un insieme di qualità che le distingue dai modelli presi a riferimento da molta pubblicistica internazionale. Sono qualità che si ritrovano prima di tutto in un impianto strategico nuovo e originale: piuttosto che inseguire la concorrenza sul terreno delle economie di scala, la media impresa italiana ha scommesso su una produzione «su misura», capace di integrare manifattura tradizionale e servizio al committente, soprattutto industriale. Questa trasformazione è stata accelerata dalla diffusione delle tecnologie di Industria 4.0, che ha consentito di gestire processi produttivi più flessibili e di proporre al mercato prodotti «intelligenti». L’evoluzione del modello di business delle medie imprese verso un crescente livello di «servitizzazione» non ha forse le caratteristiche rivoluzionarie dei modelli di business delle imprese che oggi sono configurate come vere e proprie piattaforme (da Airbnb a Uber), ma ha consentito lo sviluppo di un lavoro qualificato, rispettoso della storia e delle vocazioni dei territori. I successi del distretto toscano della pelletteria così come la crescita della Motor Valley in Emilia testimoniano delle potenzialità occupazionali di filiere che hanno saputo valorizzare il saper fare dei territori, anche grazie agli investimenti di multinazionali oggi particolarmente attente alla qualità delle competenze presenti in determinate aree del nostro Paese.
Stando a diverse ricerche sui risultati economici ottenuti dalle piccole e medie imprese italiane, i top performer del made in Italy sono cresciuti in modo significativo (oltre il 10% annuo fra il 2012 e il 2018) con una redditività superiore alle aspettative (Roi, ovvero ritorno sugli investimenti, oltre il 15%).
In questo quadro, non stupisce che queste stesse imprese segnalino nuove priorità. Oggi una delle loro principali preoccupazioni è rappresentata proprio dalla ricerca di personale qualificato in grado di interpretare in modo efficace il difficile equilibrio fra mestieri consolidati e trasformazione digitale.
Queste considerazioni sul fronte qualitativo risultano particolarmente importanti alla vigilia di grandi cambiamenti che stanno caratterizzando lo scenario internazionale. Quella domanda attenta e consapevole che guarda con favore al prodotto italiano chiede oggi alle imprese di farsi carico di istanze che superano di molto le attese tradizionali sulla qualità. Le imprese che dialogano con la committenza più attenta sanno di dover esprimere una progettualità adeguata sul fronte della sostenibilità ambientale, sui temi dell’inclusione sociale e della coesione dei territori. Per rimanere competitivi le migliori imprese italiane non dovranno limitarsi a fare qualche milione di fatturato in più o aumentare la propria percentuale di export. La sfida è lavorare sulle proprie specificità per renderle pienamente compatibili con un paradigma economico ancora in costruzione.
Modello circolare
Le premesse ci sono. Le imprese italiane – lo ricorda sistematicamente Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – sono storicamente attente all’ambiente circostante e alla riduzione degli sprechi. L’Italia non ha mai avuto a disposizione materie prime e per questo ha sviluppato un modello produttivo circolare ante litteram, promuovendo l’ottimizzazione dei processi di trasformazione e il riciclo degli scarti. Considerazioni analoghe valgono sul fronte del lavoro.
Una produzione che guarda a varietà e personalizzazione ha bisogno di tecnologie così come di competenze qualificate. La crescita delle imprese Champions favorisce una classe media disposta a investire in formazione. Al contrario delle imprese piattaforma, i cui fatturati crescono senza che si muova il contatore dei dipendenti, le medie imprese più competitive sono già oggi un antidoto essenziale al declino della provincia.
Un’analisi attenta dei nuovi campioni del made in Italy restituisce un’immagine che va molto oltre lo stereotipo di piccole imprese un po’ cresciute. La media impresa italiana è una delle leve con cui il Paese può guardare a viso aperto alle trasformazioni economiche, sociali e ambientali che abbiamo di fronte negli anni a venire. Il loro futuro dipende dalla consapevolezza che sapremo sviluppare rispetto alle loro effettive qualità e dalla nostra capacità, come Paese, di promuoverne il valore.
*Università Ca’ Foscari, Venezia; L’Economia, 17 febbraio 2020