Adesso tocca all’Italia. La protagonista dell’ultimo rapporto del Centro studi di Confindustria è la domanda interna, grande assente nel lungo attraversamento della crisi, chiamata ora a svolgere un nuovo ruolo propulsivo davanti al rallentamento progressivo dell’export.
Se le commesse internazionali hanno infatti traghettato l’industria e il Paese fuori dalla recessione – questa la tesi di fondo del rapporto “Dove va l’industria italiana” – oggi queste non sono più in grado di fornire carburante aggiuntivo sufficiente. In parte a causa di eventi contingenti come guerre commerciali o Brexit, più in generale per effetto di trasformazioni profonde che indicano la fine dell’età dell’oro della globalizzazione e un ritorno al regionalismo come paradigma di riferimento per gli scambi. Se questo accade diventa dunque necessario fare maggiore affidamento sul mercato domestico, rilanciando in primis investimenti pubblici e privati.
Questi ultimi, del resto, hanno già fornito un contributo non marginale negli ultimi anni, spinti in particolare dagli incentivi fiscali del Piano Industria-Impresa 4.0. Nelle stime di Csc e del dipartimento Finanze del ministero dell’Economia, nel 2017 l’iperammortamento è stato in grado di attivare dieci miliardi di euro di investimenti per macchinari e attrezzature hi-tech (in linea con le stime dell’esecutivo di allora), a cui si aggiungono altri 3,3 miliardi di beni immateriali, valori in questo caso superiori di quasi il 50% rispetto alle stime preventive che aveva effettuato il Governo.
«Siamo soddisfatti – spiega il direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci – anche perché i dati mostrano che sono state soprattutto le Pmi a utilizzare la misura. Del resto – aggiunge – riusciremo a mantenere il settimo posto come industria per valore aggiunto e il secondo in Europa se punteremo su investimenti pubblici e privati, in particolare verso i maggiori driver di sviluppo, che sono digitalizzazione e sostenibilità».
Se quella degli investimenti pare la leva più promettente per rilanciare il Paese, il rapporto evidenzia tuttavia una serie di ostacoli rilevanti che non rendono per nulla automatico il raggiungimento del target: l’elevata incertezza del contesto politico ed economico interno ed internazionale, attese non particolarmente ottimistiche sulla ripresa della domanda, finanziamenti bancari che alla fine del 2018 sono tornati a farsi più restrittivi, vincoli di bilancio pubblici sempre più stringenti. «E naturalmente deve tornare la fiducia – ricorda il capo economista di Confindustria Andrea Montanino – perché in assenza di questo fattore è sempre l’attendismo a prevalere».
Se l’andamento 2017-2018 della produzione industriale italiana testimonia la validità dell’operazione 4.0, pare chiaro che questo non sia stato sufficiente per modificare il quadro di fondo. Che ha visto negli anni soprattutto l’export come traino dell’output manifatturiero mentre i ricavi realizzati in Italia sono oggi appena un paio di punti al di sopra di quanto accadeva nel 2013.
Evidente il gap rispetto agli altri paesi, con il volume della domanda nazionale ad avere avviato una parziale risalita a partire dal 2014, dimostrando tuttavia una capacità di recupero inferiore rispetto a Germania, Francia, Spagna e all’intera eurozona. La politica economica e le scelte di politica industriale vengono così chiamate a riprendere il centro della scena, sia a livello nazionale che europeo. Su scala continentale la proposta è quella di lavorare per completare e sviluppare il mercato unico, anche in questo caso avvalendosi della forza autonoma di un’area da 500 milioni di abitanti per investire in catene del valore strategiche, da sviluppare attraverso piani di azione definiti. Un esempio è l’ambito digitale, dove in assenza di un cambio di rotta l’Europa rischia di perdere la sfida contro America e Asia. Emblematici gli ultimi dati sui brevetti riconducibili all’area Ict, con l’intera Europa a raggiungere solo i due terzi dei volumi Usa, il 71% di quelli coreani, meno della metà rispetto al Giappone.