Uno studio della London School of Economics mostra che in Inghilterra il consenso per la Brexit è più alto nelle aree dove i fondi europei vengono spesi peggio. L’idea della ricerca significativamente viene da un economista italiano, Riccardo Crescenzi, e non resta che chiedersi quanto degradi in Italia l’immagine dell’Europa il modo in cui intere aree del nostro Paese sperperano le risorse messe a disposizione da Bruxelles. È una domanda attuale, ora che in Italia torna a infuriare una guerra di parole contro un accordo europeo ormai quasi concluso. Stavolta si tratta del Meccanismo europeo di stabilità, il fondo costruito dai governi dell’area euro per far credito a quelli fra loro che non riescono più a finanziarsi perché colpiti da una crisi. È dal 2011 (in versioni diverse) che quel fondo è lì per sostituirsi agli investitori, a patto che i Paesi salvati affrontino i cambiamenti necessari a ricostruire la fiducia del mercato e rimborsare il Mes. Ci sono già passati Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro. Ora la polemica in Italia si concentra su un punto: il Mes ottiene il potere di valutare preventivamente se un Paese che chiede un prestito sia in grado di restituirlo. Anche la Commissione europea compie la stessa analisi. Ma quella del Mes — con una novità negli accordi europei — sarà condotta «dal punto di vista del creditore» e non dell’interesse generale. In altri termini il Mes potrà esigere che un governo alleggerisca il proprio debito imponendo perdite agli obbligazionisti, prima di acconsentire a sostenerlo. In questo modo riuscirebbe a prestare di meno e avrebbe maggiori probabilità essere rimborsato.
Nulla di nuovo, in realtà. Quella clausola rende più esplicito un potere che il Mes nei fatti ha già ed è dal 2015 che il Corriere racconta come in Germania l’orientamento si sia evoluto in questo senso. Inutile nascondersi: quella misura è pensata avendo in testa un Paese in particolare, l’Italia. La più grande fra le economie fragili, potenzialmente la più costosa da salvare. L’intera area euro, non solo la Germania, ha fondamentalmente perso la pazienza verso l’ultimo Paese dove la politica naviga senza rotta, illeggibile, la crescita sparita da vent’anni, il debito pubblico che sale sempre e mai nulla cambia. L’Italia sarà stabilizzata ma, vista dal resto d’Europa, presenta due minacce: si trova su una china giudicata insostenibile e il timore che il suo debito deflagri complica ogni concessione di Berlino su un bilancio comune dell’area euro, su un’assicurazione comune sui depositi bancari e altre condivisioni di risorse necessarie perché l’euro funzioni bene.
Non è detto che questi giudizi sull’Italia siano del tutto accurati, notizie sulla sua morte finanziaria si sono dimostrate esagerate in passato. Si sottovaluta spesso che il debito totale nell’economia — pubblico più privato — è inferiore alla media dell’area euro, perché famiglie e imprese hanno bilanci complessivamente sani. Al Paese mancheranno tante virtù, ma non una capacità da Houdini di divincolarsi e evitare il peggio quando è messo alle strette.
Eppure i problemi restano. Psicologicamente e economicamente, solo l’Italia resta invischiata nella crisi di inizio decennio e ora inizia a attrarre davvero il fastidio degli altri. È un sordo rancore che ha comprensibili ragioni di affari, oltre che politiche. In Francia e in Spagna si ha fretta di completare l’unione bancaria, perché possa partire un’ondata di fusioni dove i grandi istituti dei due Paesi hanno tutto per essere cacciatori e non prede. In Germania e Olanda si vuole uscire dai tassi sottozero — di cui, a torto, si incolpa l’Italia — perché i fondi pensione e le assicurazioni rischiano l’insolvenza se il loro patrimonio in gestione continuerà a non rendere.
Non va dunque equivocato il silenzio siderale a Berlino, mentre i governi di Roma aggirano un anno dopo l’altro le regole di bilancio europee. Queste saranno anche ottuse, ma in Germania si è semplicemente smesso di pensare che possano governare il rischio italiano. Si è concluso che lo si gestirà — se serve — imponendo perdite ai creditori privati o oneri alle famiglie italiane con la loro ricchezza. Per questo le polemiche di questi giorni a Roma sono così futili: anche senza cambiare il Mes, la Germania è legalmente già in grado di spingere in quella direzione se vuole. Come grande Paese — al pari di Francia e dell’Italia stessa — ha un veto sulle decisioni del fondo e può impedire prestiti a un governo in crisi se ne giudica il debito insostenibile. La riforma del Mes semmai prevede sostegni senza condizioni ad altri Paesi ritenuti «innocenti» proprio per stendere un cordone sanitario attorno a chi è colpito e prevenire dunque il contagio. Chi pensa così sottovaluta le implicazioni drammatiche di procedure del genere. In Italia invece la classe politica incredibilmente si dilania sulle clausole del Mes, invece che sul da farsi perché il Paese non debba mai trovarsi costretto a chiedere aiuto ad altri. Così il divorzio nelle percezioni della realtà fra Italia e Germania diventa totale. Oggi, è la grande minaccia che aleggia sull’euro.