Affronto la mia “corsetta” domenicale con un intento: rimettere in ordine le idee. Il secondo intento, mantenersi in forma, non può definirsi un obiettivo vista la velocità e la scarsità dei chilometri prodotti. E’ una strada di campagna, dove mi esercito, ma vicina alla città. Percorsa da gente “media”, la media borghesia vicentina. Quelli, per intenderci, che hanno perso un po’ di soldi con la Popolare di Vicenza. In realtà, non li hanno persi tutti anche perché negli anni ne avevano fatti altrettanti con i dividendi che Gianni Z. ogni anno elargiva. Molti sono con il cane, spesso in piccoli gruppi. Alla luce del sole conversano tranquillamente. Il mio procedere calmo mi permette di ascoltare stralci delle loro chiaccherate (la privacy è garantita). E’ un esercizio che ritengo quanto mai utile, quasi fosse uno dei miei periscopi sulla società. Gli stereotipi ci sono tutti: gli uomini parlano o di calcio o di politica; le donne di figli e supermercati. Alcuni sono pensionati, molti cinquantenni. Il fil rouge che lega queste conversazioni è una dose multipla di pessimismo, o meglio, di uno scetticismo stanco.
Qualche anno fa Michele Serra ha scritto un romanzo comico dal titolo eloquente: “Gli sdraiati” (Feltrinelli). Era rivolto ai nostri figli o ai nostri nipoti. Di fondo c’era una forte critica ai padri e alle madri che hanno creato questa generazione di accovacciati sul divano. Adesso Francesca Archibugi ne ha fatto un film. Ho sempre pensato che “gli sdraiati” non fossero i millennials. E se fossimo tutti noi gli sdraiati? Il dibattito perenne sulle pensioni lo certifica. Un Paese che da venticinque anni continua a parlare di pensioni (Riforma Amato del 1992), è un Paese che non ha voglia di futuro. Questa è la precisa misura: sono i centimetri, i metri, i chilometri che ci distanziano dal futuro. Non conosco paese al mondo che provi un tale “piacere” ad arrovellarsi su questo tema. Il 29 dicembre del 1973 il governo presieduto da Mariano Rumor introdusse, tra Natale e Capodanno, le baby pensioni per i dipendenti pubblici. La motivazione di questo scellerato provvedimento era legata alle imminenti elezioni amministrative che, nei fatti, portarono la Democrazia Cristiana ad un pieno di voti. Aveva ragione Mariano Rumor. Non c’ero, all’epoca, perché nato da pochi anni, ma sono certo che nessuno nell’Italia di allora si scandalizzò o scese in piazza per evitare un furto legalizzato ai danni delle generazioni future. Per pura cronaca, solo nel 1992 furono definitivamente cancellate.
La pensione non ci fa invecchiare
Nello scetticismo stanco di oggi, tutti siamo contro all’allungamento dell’attività lavorativa e, contemporaneamente, nessuno gioisce del fatto che se questo si verifica è perché si campa di più. Oggi dare ad un 65enne del vecchio, è dire una bestemmia. Chiedergli di lavorare qualche anno in più, visto che vivrà mediamente fino ad 83 anni, un insulto (dal 1900 ai giorni nostri l’attesa di vita è passata da 35 a 83 anni). Proprio strano questo Paese. Non c’è che dire: la nebbia non si vede più nella nostra pianura perché si è rintanata nella nostra testa. Certo, siamo in una fase di transizione e qualche scivolo dovrà essere previsto, ma non possiamo non tenere conto che la medicina, le condizioni igieniche, la pratica sportiva e l’alimentazione ci stanno dando un forte contributo a vedere nascere e crescere i nostri nipoti. Assunto che il romanzo di Serra è valido per tutte le generazioni, il libro che vi sto citando è la spiegazione plastica di come ci siamo arrivati e perché continueremo “a farci del male”, se questi sono gli intellettuali – in erba – che dovrebbero darci le dritte per uscire da questa melma. “Teoria della classe disagiata” è scritto da uno che è nato nel 1983: Raffaele Alberto Ventura. Il libro nasce da una serie di post pubblicati sul suo blog (www.eschaton.it) ed è il legittimo seguito di un libro scritto da Thorstein Veblen, “Teoria della classe agiata”. Le prime pagini sembrano promettenti:
“Il concetto di classe disagiata che propongo include un ampio spettro di casi umani, tutti caratterizzati dall’esperienza disforica della mobilità discendente: dal nobile decaduto al figlio della piccola borghesia che prende coscienza del fallimento del suo progetto di ascesa sociale, dal creativo che accumula visibilità nella speranza di farsi strada in un settore fin troppo affollato fino al lavoratore salariato che vede il proprio settore minacciato dal progresso tecnologico o dalle delocalizzazioni, passando per tutti quelli che, facendo violenza alle proprie inclinazioni, riescono a garantirsi un relativo benessere materiale finendo magari nelle spire dello stress e della depressione.”
A queste categorie potremmo aggiungere i tanti giovani laureati che sono costretti ad andarsene all’estero o i tanti ragazzi del sud che devono raggiungere il Nord in cerca di fortuna. Una migrazione che ci ferisce, ci interroga, ci deve far riflettere. Perché se il mondo è globale, e noi siamo figli e cittadini di questa prospettiva, lasciare la propria terra deve essere una scelta, mai l’unica opzione. Conosco troppe persone che hanno dovuto lasciare il nostro Paese. Vivono all’estero in una condizione economica perfetta, ma se potessero, ritornerebbero anche con uno stipendio pari alla metà di quello che guadagnano in città come Parigi, New York o Londra.
Gli illuminati spenti
Perché è accaduto tutto questo? Ventura non ci mette molto a dare la sua versione dei fatti e lo fa utilizzando le armi che ci hanno condotto in questa situazione. Da una parte attacca lo Stato liberale, “per quanto ricca sia la società capitalista, non è mai ricca abbastanza”, dall’altra si infila dritto diritto contro “la potenza militare-industriale-monetaria degli Usa”. Attenzione, non siamo di fronte ad un pamphlet banale. Ventura fa un uso sapiente della letteratura, per i suoi scopi. Emma Bovary, la protagonista del romanzo di Gustave Flaubert, viene vista come l’icona perfetta del consumismo, in questo caso culturale. “Madame Bovary, c’est moi”, afferma l’autore. L’eroina, frustrata da un matrimonio mediocre e intossicata dalle troppe letture di romanzi, offre a tutti noi una patologia sociale su cui inserirsi: il bovarismo, una classe sociale che è ricca abbastanza per studiare, ma non abbastanza per condurre una vita che era convinta di meritarsi. E’ su passaggi come questi che Ventura usa in modo subdolo la sua conoscenza enciclopedica per dirci che non serve a nulla migliorarci, che solo le classi elette devono dotarsi di strumenti cognitivi per leggere il mondo. A che serve l’istruzione di massa? E’ sufficiente che poche persone ci conducano verso una società illuminata. Ventura non capisce che la voglia di miglioramento è insita nell’uomo (tra l’atro è dimostrato che una maggiore istruzione allunga la vita). E’ quel desiderio che ci ha portato a liberarci dalla povertà, e non morire a 30 anni. Possiamo discutere se il nostro sistema educativo si possa migliorare perché ha prodotto tanti disoccupati con lauree che sono soli pezzi di carta o se i social media sono la realizzazione di una pericolosa esaltazione dell’io. Non possiamo derubricare banalmente alcuni diritti che secoli di storia, e di battaglie, ci hanno permesso di raggiungere.
Il mercato che evitiamo
Semmai, proprio ripartendo dalle pensioni baby, dobbiamo contestare al nostro Paese – e Ventura se lo dimentica – non tanto di essere troppo neoliberale, ma ancora immerso in pezzi di socialismo reale. In questa Italia sono troppi i vincoli burocratici, gli approcci legulei che bloccano la libera iniziativa. Sono troppe le aziende che osteggiano il libero mercato, che vivono di appalti pubblici. Sono troppi quelli che non pagano le tasse e troppo pochi quelli che le pagano troppo alte. Troppo alto è il debito pubblico che sta schiacciando le nuove generazioni di cui un po’ tutti abbiamo goduto. Noi siamo quel Paese che sta prendendo congedo dalla modernità, basta osservare il diffuso atteggiamento contrario alla scienza (vaccini docet) o agli insediamenti industriali. Altro che eccesso di neoliberismo. “Teoria della classe disagiata” merita di essere letto, non lo dico perché ciò è consolatorio rispetto ai soldi che ho speso per acquistarlo. Merita di essere letto perché mette in fila una seria di domande vere, profonde, e rispecchia il rumore, sempre più assordante, che sentiamo nella nostra “corsetta” quotidiana che ognuno di noi compie nella sua città. I temi sono tutti lì. Temi che per il momento non hanno una soluzione. La soluzione però non può essere quella di un ritorno all’Unione Sovietica dove Ventura ci ricorda che “esisteva una legge contro il parassitismo sociale che puniva chi rimaneva senza lavoro per oltre tre mesi e serviva prevalentemente a sanzionare chi svolgeva attività considerate improduttive secondo i criteri della contabilità marxista-leninista. Gli intellettuali potevano operare solo se iscritti all’Unione degli scrittori, che rilasciava la qualifica ufficiale di letterato e li retribuiva. In caso contrario, soprattutto se invisi al Partito, gli scrittori rischiavano di essere condannati ai lavori forzati, come avvenne per esempio a Mandel’štam, Charms e Brodskij. Sicuramente il dispositivo servì a controllare la produzione culturale, ma più profondamente si trattava di sanzionare il lavoro improduttivo perché questo non era una risorsa per il sistema socialista bensì una minaccia. Nell’economia pianificata non c’è nessun plusvalore da realizzare, nessuna sovrapproduzione da tamponare: ci sono soltanto delle risorse (limitate) da spartire. Non c’è posto per la classe consumatrice”.
Questo sarebbe il libro che, secondo la critica italiana, sta generando un grande consenso? Questo è il manifesto di una generazione? Un manifesto, di solito, non contiene solo l’analisi, entra dentro alle proposte; non vive di passato che ha già dimostrato di essere perdente. In questo libro la speranza, l’utopia di un trentenne dotato di intelligenza come Ventura, serve solo all’autocompiacimento. Ventura vive a Parigi e opera nel mondo della cultura, recita la sua presentazione. Letto questo, e arrivato fino all’ultima riga del libro, il pensiero mi ha portato a quei “cattivi maestri” che passeggiano ancora sulla “vie lumiere”.
Titolo: Teoria della classe disagiata
Autore: Raffaele Alberto Ventura
Editore: Minimun Fax
262 pp; 16 Euro