Non riusciremo mai a fare i compiti a casa finché continueremo a pensare in piccolo. Emmanuel Macron con una lettera al «Corriere della Sera» ha raccontato la sua Europa. La Germania con l’erede di Angela Merkel, Annegrette Kramp Karrenbauer, ha aperto ad alcune delle proposte chiudendo ad altre. L’Italia? Non pervenuta. Da un anno a questa parte stiamo pensando esclusivamente in termini di confini nazionali. Quasi il nostro Paese non fosse il quinto al mondo in termini di export. E che proprio la grande propensione a vincere sui mercati esteri non fosse nel dna di molti dei campioni nazionali che presentiamo in queste pagine.
Anche la settimana prossima, quando ci troveremo a essere il primo Paese del G7 a firmare un’intesa con la Cina per la Via della Seta, lo faremo senza aver coinvolto alcuno dei partner europei. E irritando il nostro naturale alleato, l’America. Questo non significa essere protagonisti, ma oscillare tra il velleitarismo e l’incapacità di giocare sul nostro terreno naturale. Che è l’Europa. Ma farlo significherebbe accettarne quelli che vengono definiti in modo sprezzante, «riti», che sono in realtà elementi fondanti dell’Unione europea. Come i patti e i trattati firmati. Quasi non si voglia capire che dobbiamo essere vincenti in Europa, e quindi in casa nostra, se vogliamo essere un Paese protagonista sullo scenario internazionale.
Il metro con il quale verremo misurati ha parametri che sono sempre gli stessi, ma che implicano da parte della politica e del governo molte meno chiacchiere e molto più pragmatismo. Si tratta di quei conti pubblici che al nostro governo paiono non interessare più di tanto. Ma che invece rappresentano il biglietto da visita di un Paese. Che permettono di attrarre investimenti dall’estero. Non inganni il relativo indietreggiamento dello spread maturato più a Francoforte con la nuova manovra della Banca centrale europea che a Roma.
Siamo ancora visti con diffidenza. Un dibattito come quello sulla Tav ha contribuito a dare colpi pesanti alla nostra affidabilità e credibilità. In queste condizioni la crescita è figlia solo ed esclusivamente delle imprese e della loro capacità di produrre sviluppo.
È stato così in tutti gli anni della crisi. E le aziende non si sono tirate indietro, come dimostra questo numero speciale sui 600 Campioni vincenti del made in Italy. E come dimostrano le statistiche che ci vedono come indiscussa seconda potenza manifatturiera d’Europa. È per questo che preferiamo parlare del nostro Paese in termini di potenzialità invece che di realtà.
Il valore aggiunto che la nostra industria porta a Paesi come la Germania e la Francia è tale da permetterci una posizione di assoluto rilievo nelle scelte di sviluppo nell’intera Europa. Se così non è, è solo perché mentre le imprese hanno iniziato a ragionare in termini di reti, la politica stenta o non vuole comprendere il suo ruolo di creatrice di un sistema nel quale le aziende italiane e straniere possano muoversi con tranquillità e stabilità. Significa avere conti pubblici a posto. E un sistema burocratico efficiente. Non abbiamo né gli uni, né l’altro.
L’ Economia 15 marzo 2019