Alla fine la telefonata di Giuseppe Conte è arrivata, ma solo giovedì sera all’annuncio delle dimissioni. Mario Nava, 51 anni, ha fatto sapere che avrebbe lasciato dopo appena sei mesi il suo posto alla presidenza della Consob per una ragione «solo politica»: le pressioni crescenti su di lui dei leader del Movimento 5 Stelle e — anche se questo non l’ha detto — il venir meno del sostegno dalla Lega.
È a quel punto che Conte, il presidente del Consiglio, ha cercato Nava al telefono giovedì nel suo ufficio romano non lontano da Villa Borghese. Senza successo, come magari era prevedibile. Da quando si è insediato il primo giugno scorso il premier aveva tenuto spesso a parlare di Nava, sollecitando un’istruttoria sulla posizione di quest’ultimo quale funzionario “comandato” per distacco dalla Commissione europea all’autorità dei mercati finanziari. Ne ha parlato spesso, Conte, ma mai con l’interessato: tutte le richieste di un colloquio avanzate dalla Consob in questi mesi sono cadute nel vuoto a Palazzo Chigi. Allo stesso modo i registri del ministero dello Sviluppo non segnalano udienze di Nava dal vicepremier Luigi Di Maio, benché anche questa fosse stata molto probabilmente richiesta.
Fin dal primo giorno il mondo dei 5 Stelle aveva abbassato le saracinesche sul regolatore arrivato da Bruxelles. In teoria per la sua posizione di distacco temporaneo, nella sostanza senza mai neppure cercare un compromesso o una coesistenza fra l’arbitro indipendente dei mercati e il nuovo governo populista. Nava anche di recente aveva pensato che una tregua sarebbe stata possibile, quando un emendamento di maggioranza al decreto “Milleproroghe” aveva finalmente finanziato con 25 milioni l’Arbitro delle controversie finanziarie presso la Consob per indennizzare alcuni dei clienti truffati dalle banche. Poi però già il giorno dopo, mercoledì, le bordate verbali dei leader di M5S su Nava sono riprese con l’accusa di non essere indipendente a causa della sua affiliazione con la Commissione Ue. Anche dall’interno due dei quattro commissari, Giuseppe Maria Berruti e Paolo Ciocca, hanno alzato la pressione contrastando molte iniziative del presidente.
È allora che è scattato qualcosa. Il presidente dell’Autorità ha voluto sentire due dei suoi contatti fra gli esponenti della Lega: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti e il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia, entrambi fra i più pragmatici e moderati nel governo. Ci ha messo poco, Nava, a capire che anche il loro abituale sostegno era venuto meno ed esisteva un’intesa di massima fra le due forze di governo per puntare a rimuoverlo. Adesso si liberano di colpo i posti di vertice in due autorità di controllo che chi governa può cercare di spartirsi: la presidenza dell’Antitrust (proprio ieri è partito il bando) e appunto la Consob. Quest’ultima ha poteri di manovrare la Guardia di Finanza per ispezioni improvvise in qualunque società abbia emesso titoli. Di conseguenza, se il presidente dell’Autorità non desse le necessarie garanzie di equilibrio e indipendenza dalla politica, potrebbe esercitare un forte condizionamento su banche o aziende quotate in tutti i settori. La successione a Nava, delicatissima, potrebbe vedere anche candidati interni dopo i mesi di battaglia con l’ormai ex presidente. Fra gli altri gli stessi Berruti e Ciocca, mentre circolano anche voci di un potenziale interesse per l’economista Marcello Minenna.
Nel resto d’Europa non è sfuggito il senso di quanto accaduto. Nella notte di giovedì e ieri sono piovute su Roma decine di telefonate cariche di domande dalla Bce, dalla Commissione Ue, dal fondo salvataggi Esm, dall’Ocse, da Parigi e dalla Germania. Meno dalle società quotate italiane. Ai 600 funzionari della Consob, che lo hanno applaudito molto per un saluto nell’auditorium interno, Nava ha detto di essersi sentito a Roma «come Ronaldo che giocava nel Chievo». La squadra non era la sua Authority, evidentemente, ma il governo a pochi chilometri da là.