Si è aperta nei giorni scorsi quella che si presenta come la competizione per il dopo-Camusso tra Maurizio Landini e Vincenzo Colla. La Cgil deve scegliere il nuovo segretario generale e la procedura è iniziata con qualche strappo e ampie recriminazioni. Ma al di là della cronaca spicciola e dei conflitti interni il congresso della maggiore confederazione italiana merita interesse perché nella stagione del populismo di governo è il primo corpo intermedio che, per l’importanza delle scelte da operare, dovrà giocoforza elaborare una strategia capace di fare i conti con una situazione del tutto nuova. Sui corpi intermedi, infatti, incombe come non mai l’incubo della disintermediazione. Il populismo si è insediato non solo elettoralmente nel corpaccione del lavoro dipendente ma ci tiene a una sorta di manutenzione quotidiana del rapporto con «il popolo», giocata sul filo della comunicazione più spregiudicata e demagogica. Per il sindacato è una sfida senza precedenti e tanto più per un’organizzazione come la Cgil giustamente gelosa della propria autonomia. Sia chiaro, in passato anche al Pci capitava spesso di bypassare il sindacato ma i codici erano comuni e si trattava per lo più di conflitti contingenti. Ora le confederazioni devono convivere con un condominio che non hanno scelto, la tuta blu o l’impiegato restano tesserati al sindacato ma le loro istanze in materia di lavoro/retribuzioni/diritti rappresentano la «materia prima» dell’offensiva populista. La disuguaglianza — per dirla con un termine che sintetizza il campo d’azione dei sindacati — non è più monopolio dell’azione dei corpi intermedi (e della sinistra) ma è come se fosse stata scalata e fatta propria dal populismo.
È questa la ragione strutturale della crisi odierna del sindacato che nel day by day si può facilmente constatare nei balbettii sul Def di Salvini-Di Maio o nell’assordante silenzio sul rischio di uscita dall’euro. Il sindacato confederale sa che per riconquistare la propria base deve competere con una politica aggressiva ed è come se non avesse i denti giusti per mordere. Sulle singole vertenze aziendali le categorie hanno ancora peso e incisività, il tesseramento scende ma non tracolla, l’impasse della confederazione si rivela invece proprio nell’incapacità di approcciare la novità populista e di battersi per superare il condominio. La risposta di medio periodo probabilmente sta nell’accettare la sfida sulla democrazia: ampliandola all’interno delle proprie strutture, avvicinando la contrattazione al luogo di lavoro, costruendo una prospettiva «alta» di partecipazione e democrazia economica.
E siccome stiamo parlando della Cgil sarà utile rapportare questa discussione alla storia e agli schemi di quest’organizzazione. E allora va detto che il sindacato ha bisogno sia di un «momento Lama» sia di un «momento Trentin». Nel primo caso la metafora storica serve per indicare come l’azione di sostegno e di miglioramento della condizione di lavoro non debba entrare in contraddizione con la salvaguardia degli equilibri di sistema. Il debito o la permanenza nell’euro non sono materie che vanno «nascoste» al dibattito sindacale, anzi in qualche maniera possono qualificarlo smascherando il populismo di governo. Il momento Trentin indica invece un’attenzione quasi spasmodica da rivolgere ai cambiamenti dell’economia reale e delle imprese. Solo ricostruendo la mappa dell’innovazione con tutte le sue discontinuità e le sue sfide il sindacato può trovare il modo di radicarsi nel presente e di costruire quelle esperienze di contrattazione capaci di concretizzare una proposta di re-intermediazione. Confidiamo che la Cgil discuta di questo e non di sole beghe interne e che il suo dibattito spinga anche gli altri corpi intermedi a fare altrettanto.