Un hotel di lusso a Positano, forse il più noto dell’intera Costiera amalfitana. Un’azienda del sistema moda a Monza, Brianza, con un brand famoso ormai non più solo «in caso di neve». Un’ex piccola fabbrica partita nel 1973 da Rubbiano di Solignano, Parma, e diventata in fretta un’eccellenza mondiale nei complicati territori delle tecnologie di rivestimento per l’industria aeronautica, energetica, medicale. Sono tre business che più diversi non si può. Ma siamo in Italia, patria della piccola e media imprenditoria diffusa, e non è difficile trovare il link che unisce Le Sirenuse, Colmar, Turbocoating. Meglio: «i» link, al plurale. I più ovvi sono quelli che accomunano qualunque espressione del made in Italy, in qualunque settore. Tra i meno scontati, perché per arrivarci occorre fare un lungo viaggio in anni di bilanci di tutte le aziende del Paese, c’è una capacità di crescita (o di tenuta) che va oltre, molto oltre le medie dei cicli economici.
Anticorpi
È quello che contraddistingue i Champions. I tre di cui sopra, e tutti gli altri campioni di sviluppo, redditività, solidità finanziaria emersi dalla terza analisi de L’Economia e ItalyPost sull’universo delle piccole e medie imprese. Saranno mille in tutto, per l’edizione 2020. La presenteremo integralmente venerdì 13 marzo, in Piazza Affari, e benché sia un Top Performer Day non sarà, ovviamente, un’occasione per dire che va (o andrà) tutto bene, che la crisi c’è ma in fondo è meno grave di come la si dipinge. Al contrario. Non va tutto bene. La crisi c’è, e potrebbe davvero essere peggio di come la si dipinge. Però, a volerli cercare, troveremmo anche gli anticorpi. A saperle ascoltare, le storie che incominciamo a raccontare da questo numero insieme ai profili dei tre gruppi in cui le abbiamo suddivise (le 800 migliori aziende tra i 20 e i 120 milioni di fatturato, le 200 della fascia fino ai 500 milioni, infine un excursus «fuori quota» per capire cosa succede tra chi ha già nel mirino l’obiettivo miliardario), quegli anticorpi potremmo imparare a rafforzarli. E a diffonderli, magari.
Per dirla con esempi concreti, che sono poi i primi apripista verso il lungo percorso che iniziamo oggi: non è che Antonio Sersale (il presidente de Le Sirenuse, new entry tra i Champions con 21 milioni di ricavi dagli 11 del 2012, 10,3% di crescita media annua nel periodo, 37% di Ebitda medio nel triennio), Carlo e Giulio Colombo (gli amministratori delegati di Colmar, fatturato da 52 a 107 milioni, Ebitda pari al 19%, un patrimonio netto equivalente al giro d’affari), Nelso Antolotti (il numero uno di Turbocoating, che in realtà da gennaio si chiama Lincotek Surface Solutions e vanta alcune delle migliori performance in assoluto: da 20 a 110 milioni di ricavi, crescita media oltre il 32%, Ebitda vicino al 27%), non debbano fare i conti con il resto del mondo e siano immuni dal contesto.
Ma quando l’aria che tira sui mercati è buona, loro riescono ad approfittarne molto più di quanto non sappia fare, nel complesso, l’Italia dell’affanno perenne. Quando, come adesso, i venti di crisi sul commercio globale si trasformano per noi in bufera, la produzione industriale crolla, la stagnazione minaccia di rispedirci in recessione e, se non bastasse, sull’economia mondiale piomba il classico cigno nero (il coronavirus, questa volta), non si ritirano spaventati e immobili. È stata la grande lezione dei Champions durante lo tsunami 2008-2013. È vero, puoi fare ben poco se – come sta accadendo ora – l’economia cinese si paralizza, la produzione e i commerci mondiali si bloccano e crollano, i turisti smettono di viaggiare. Tra quel «poco», però, ci sono le difese da alzare per prepararsi a una ripartenza che comunque, prima o dopo, arriverà: nel 2008-2013 ha vinto chi ha continuato a investire (anche e soprattutto reimmettendo gli utili in azienda), innovare, espandersi all’estero, progettare il futuro.
Impatto
Certo: per le Pmi è più difficile. E sì: le dimensioni sono un limite del nostro sistema manifatturiero e imprenditoriale in genere. Però questo è ciò che abbiamo, e questo ciò che il sistema Paese dovrebbe mettere in condizione di crescere. Non sarebbe così complicato, se avessimo una politica industriale. I tanti Champions dimostrano che la materia prima c’è, ed è pericoloso sottovalutarne l’impatto sul tessuto economico e sociale del Paese: prese singolarmente sono piccole e a volte piccolissime, certo, ma tutte insieme le aziende della sola Top 800 fanno 36,4 miliardi di fatturato (dunque più di Fca Italia che, con 27 miliardi, è il primo gruppo a controllo privato nella classifica Mediobanca sulle principali società italiane), ne ricavano 6,6 miliardi di margine operativo lordo e 3,8 di utili netti, danno lavoro a oltre 123 mila persone. In un anno in cui il Paese è cresciuto dello 0,9%, loro hanno sfiorato il 19%.
Sono dati 2018, d’accordo. Il 2019 non è andato per tutti altrettanto bene, okay. Il 2020, poi, è partito con l’annuncio del crollo della produzione industriale (–1,3% per l’intero 2019, addirittura –4,3% dicembre su dicembre), un ulteriore taglio delle previsioni di crescita del Pil (non oltre il +0,3%, ci ha informato la Ue giovedì scorso), l’enorme incognita dell’effetto coronavirus sulle economie in generale e su chi vive di esportazioni in particolare (i Champions rientrano in pieno nella categoria): tutto verissimo. Però allora, a maggior ragione: vogliamo sul serio continuare a ignorarle perché tanto – dicono – «piccolo non è più bello»?
*L’Economia, 17 febbraio 2020