Nella notte la Camera dei rappresentanti vota l’impeachment di Donald Trump, con i democratici in maggioranza e in grado di rinviare il presidente al giudizio del Senato per due imputazioni: «abuso di potere» e «ostruzione all’indagine del Congresso». Le tv hanno trasmesso in diretta sei ore di dibattito nel merito, più un altro paio sui cavilli regolamentari: uno spezzatino infinito di mini dichiarazioni, uno-due minuti a testa, ripetitive, scontate. L’Aula semivuota: un drappello di deputati, da una parte e dall’altra, presidia gli scranni in attesa di parlare, poi, piano piano, scivola verso le uscite. Solo a tarda serata, notte fonda in Italia, l’emiciclo finalmente si riempie per la decisione finale. Resta, quindi, da capire che cosa rimarrà di questa interminabile e piatta seduta nella memoria collettiva degli americani. Democratici e repubblicani sono arrivati all’appuntamento decisivo come per inerzia, con in mano un copione già scritto dai leader dei due schieramenti. Trump da una parte. Nancy Pelosi dall’altra.
La Speaker apre la seduta, facendo montare un cavalletto con la bandiera americana e ripetendo concetti durissimi: «Oggi siamo qui per difendere la democrazia per il popolo. È tragico che il comportamento senza scrupoli del presidente renda l’impeachment necessario. Non ci ha dato altra scelta. È un fatto assodato che il presidente sia una minaccia attuale per la nostra sicurezza nazionale e per l’integrità delle nostre elezioni, la base della nostra democrazia». Pelosi lascia al presidente della Commissione Affari giudiziari, il democratico Jerry Nadler, il compito di ricapitolare i capi di imputazione. Trump avrebbe «abusato» dei suoi poteri presidenziali sollecitando il leader ucraino Volodymyr Zelensky a riaprire un’inchiesta per corruzione a carico del figlio di Joe Biden, Hunter. Trump avrebbe bloccato 400 milioni di dollari in aiuti militari per smuovere Zelensky. La magistratura ucraina, però, non avviò alcuna indagine su Hunter Biden e a fine agosto le forniture militari americane furono consegnate al governo di Kiev.
Spiega Nadler: «Il presidente ha posto i suoi interessi personali, della sua campagna elettorale al di sopra di quelli del Paese». Trump ha seguito rabbiosamente, prima di partire per un comizio serale a Battle Creek, nel Michigan. Poi una scarica di 45 tweet senza risparmiare sulle maiuscole: «Questo è un assalto all’America», «Ci potete credere che oggi sono messo sotto accusa dalla sinistra radicale, da questi nullafacenti di democratici, senza che abbia fatto nulla?». Il presidente aveva segnato la linea difensiva con la lettera inviata a Pelosi, alla vigilia del dibattito, martedì 17 dicembre. Da quelle sei pagine ieri i parlamentari repubblicani pescano le argomentazioni e perfino le battute. Anche se la parola più usata è stata «charade», messinscena, lanciata l’altro ieri dal leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell.
Certo, qualcuno, su un versante e sull’altro, si è fatto prendere la mano. Il repubblicano Barry Loudermilk, della Georgia, si avventura in un confronto con il processo a Gesù: «Quando fu falsamente accusato di tradimento, Ponzio Pilato gli diede la possibilità di rispondere alle accuse. In quel processo farsa, Ponzio Pilato concesse a Gesù più diritti di quanti i democratici abbiano lasciato al presidente». Dall’altra parte il democratico Lou Correa, California, comincia in inglese e poi devia sullo spagnolo per dire: «Voto l’impeachment perché il Paese rischia la dittatura».
Tutti gli altri si attengono alle consegne. I parlamentari democratici si muovono sulla traccia di Pelosi. Mary Gay, Pramila Jayapal, Cedric Richmond, Suzan Delbene e tanti altri premettono di essere «turbati», di «non odiare nessuno», ma di «essere costretti a difendere la Costituzione». Il più vivace è Adam Schiff, presidente della Commissione Intelligence, moderatore per parte democratica del confronto e il regista di tutta la fase inquirente. I repubblicani restano sulla scia trumpiana. Brian Rabin, Roger Marshall, Debbie Lesko sembrano leggere direttamente dal testo scritto dal presidente e dal legale della Casa Bianca, Pat Cipollone. A un certo punto il conservatore Bill Johnson (Ohio) usa il suo tempo per imporre un minuto di silenzio, «in memoria degli elettori espropriati della loro volontà». Ma resta il dubbio che qualcuno, anche in Aula, se ne sia accorto.