Finiscono domani a Washington le consultazioni in vista del prossimo passo nella strategia commerciale dell’amministrazione americana: un altro ciclo di dazi sui prodotti europei, dopo la prima ondata arrivata in ottobre.
Un annuncio è previsto in febbraio e per una volta non sarebbe una mossa arbitraria della Casa Bianca di Donald Trump. Da tempo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha autorizzato gli Stati Uniti ad applicare ritorsioni contro l’Unione europea per una vecchia storia di sussidi pubblici a Airbus. Questi ultimi riguardano Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna — i soci del consorzio aeronautico —, ma anche l’Italia è esposta, se Trump in persona deciderà in questo senso. A ottobre ha già fatto alzare al 25% i dazi su 49 prodotti italiani — formaggi, frutta e alcolici — per un export da 468 milioni di dollari (circa l’1% del made in Italy in America). Ora le premesse non rassicurano, e non solo perché la Casa Bianca ha vissuto come una provocazione la conferma di Margrethe Vestager — con più poteri — come commissaria Ue alla Concorrenza attiva nel mettere sotto accusa le aziende americane del Big Tech.
Valgono, a Washington, anche considerazioni più spicce. Da novembre in America sono falliti il più grande produttore di latte, Dean Foods, e un concorrente che era sul mercato da 164 anni, Borden Diary. In Wisconsin, Stato decisivo per le Presidenziali di novembre, chiudono due aziende casearie al giorno. Per Trump è fortissima la tentazione di proteggere ancora di più i suoi elettori dai loro concorrenti italiani. L’amministrazione potrebbe decidere di alzare fino al 100% i dazi sulle aree del made in Italy che ha già colpito, o di allungare la lista dei prodotti da sanzionare. E il fatto che il governo di Roma sia stato ignorato durante la crisi iraniana di inizio anno non fa pensare che, nel commercio, Trump avrà invece un occhio di riguardo.
Del resto il momento è il più difficile da un quarto di secolo, per certi aspetti. Nei dodici mesi fino a novembre, stima l’Istat, il fatturato dell’export italiano in America è sceso del 10,4%: viene meno un decimo di una torta che era più che raddoppiata dal 2009, fino a valere 50 miliardi di dollari l’anno. Tolte le recessioni nel 2001 e 2009, è la prima volta in trent’anni che il made in Italy arretra negli Stati Uniti. Servirebbe un negoziatore, per preservare l’accesso delle imprese italiane al loro mercato estero dai volumi in maggiore crescita. E l’Italia il negoziatore lo ha, sulla carta: il 27 e 28 gennaio va a Washington a trattare Ivan Scalfarotto. L’esponente di Italia viva è sottosegretario agli Esteri, dopo che il ministro Luigi Di Maio ha portato con sé dal dicastero dello Sviluppo alla Farnesina la delega al commercio internazionale. Scalfarotto va al Consiglio dei ministri del Commercio europei a Bruxelles e si confronta con il commissario Ue Phil Hogan, che sarà a Washington proprio questa settimana.
Ma il sottosegretario resta un negoziatore dimezzato, perché non ha avuto deleghe al commercio e dunque nelle trattative in Europa e negli Usa ha meno peso politico del necessario. Di Maio, che non riesce a seguire quel dossier pure da lui fortissimamente voluto, non ha assegnato a nessuno dei suoi vice il mandato al commercio. Quasi cinque mesi sono passati per nulla, quanto a questo. Avrebbe voluto quella delega il 5 S Manlio Di Stefano, ma è troppo ostile al libero scambio per un Paese che dipende dall’export come l’Italia. Lo gestisce in pratica Scalfarotto, più aperto al mercato, ma non ha ricevuto dal ministro tutti gli strumenti per incidere. Così l’Italia resta senza regia in una partita su cui si giocano miliardi di prosperità futura.