In poche ore l’euro si è rimangiato i guadagni messi a segno in due settimane nei confronti del dollaro. Dai minimi di fine maggio a 1,152 (toccati anche per via delle tensioni politiche sulla formazione del governo italiano che secondo gli esperti hanno pesato per 3-4 figure sul cambio) la divisa comunitaria si era portata fino a 1,1823 a ridosso del consiglio direttivo della Banca centrale europea di giovedì. Le parole del governatore Mario Draghi – che difatti ha prorogato da settembre a dicembre gli acquisti di titoli di Stato riducendo l’importo mensile da 30 a 15 miliardi ma ha anche detto che i tassi rimarranno invariati almeno fino alla prossima estate – hanno però innescato una correzione violenta con il cambio sceso in pochi minuti di oltre due figure, fino a quota 1,156. Ieri è arrivato qualche segnale di stabilizzazione intorno a quota 1,16.
È evidente, considerata la recente volatilità, che gli investitori sono stati sorpresi dalle parole di Draghi. Non tanto dalla prima parte (il riscadenzamento a dicembre bilanciato però dal dimezzamento degli acquisti mensili) ma soprattutto dalla seconda parte. «Usando l’espressione “almeno fino all’estate” Draghi ha preparato un ampio cuscinetto tra la fine del Qe e l’inizio del rialzo dei tassi – spiega Gianluca Beccaria, responsabile territoriale di Banca Consulia -. Ed è questo il vero motivo che ha spinto giù l’euro». Prima del direttivo i mercati ipotizzavano una stretta da parte della Bce tra marzo e giugno. Adesso il focus si è tinto di ulteriore vaghezza (“almeno fino a”) e in ogni caso il timing si è dilatato a settembre (difatti un mese estivo) o addirittura un po’ più in là.
Non a caso l’indice Morgan Stanley 1st Eurozone hike – che prova a tracciare fra quanti mesi ci sarà il prossimo rialzo dei tassi – è balzato da 14 a 17. Il che vuol dire che oggi le aspettative dei mercati si sono spostate nettamente verso l’ultima parte del 2019 (quando peraltro, 31 ottobre, scadrà il mandato di Draghi).
Per provare a intercettare il possibile percorso del cross però è opportuno anche analizzare anche l’altra gamba, ovvero il dollaro. Se la Bce “colomba” indebolisce l’euro dall’economia Usa non arrivano segnali in senso contrario, ovvero pro-dollaro. A maggio la produzione industriale ha registrato una variazione negativa dello 0,1% su base mensile, sotto le attese (+0,2%). Questi dati hanno contribuito ad appiattire ulteriormente la curva dei rendimenti. La distanza tra i tassi a 10 anni (2,91%) e quelli a 2 (2,55%) è scesa a 36 punti, il punto più basso dal 2007. Una curva così piatta – che indica molto semplicemente che gli investitori non si fidano che l’attuale crescita possa proseguire nel lungo periodo – potrebbe complicare il percorso di normalizzazione dei tassi avviato dalla Fed nel dicembre 2015, di cui l’ultimo tassello è stata la stretta varata questa settimana (con il costo del denaro portato nel range tra l’1,75% e il 2%). «I numeri ci dicono che tanto l’euro quanto il dollaro stanno mandando segnali di debolezza per i prossimi mesi – conclude Beccaria -. Per cui mi aspetto che il cambio oscilli tra 1,15 e 1,2 da qui a fine anno ».