L’Italia, per ora, sceglie la soluzione allo zero-virgola-91-per-cento: blocca un accordo di libero scambio con una delle sette grandi economie avanzate del mondo perché non ne sono soddisfatti i produttori di una quota frazionale del «made in Italy».
Gli interessi degli altri, gli italiani che generano il restante 99% degli affari in Canada, a quanto pare passano in secondo, terzo e quart’ordine. Così un singolo gruppo organizzato di un’unica categoria è riuscito a convincere il governo a tenere in scacco un accordo che stava già favorendo i propri iscritti (ma non quanto volevano), tutti gli altri esportatori italiani e quelli del resto dell’Unione europea.
Lo «EU-Canada Comprehensive Economic and Trade Agreement» (Ceta) è un accordo europeo di tipo particolare: su di esso il potere fra Bruxelles e le capitali viene condiviso. Non bastano dunque le ratifiche del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri Ue (dove sono rappresentati i governi), perché l’azzeramento dei dazi e dei vincoli agli scambi che prevede diventi definitivo. Si devono pronunciare tutti i parlamenti nazionali. In attesa che ciascuno di essi decida se esercitare un veto sull’intesa, europei e canadesi hanno deciso però di muovere un passo in più: da settembre scorso è sparito «in via provvisoria» il 98% dei dazi e vincoli alle vendite di prodotti europei in Canada, e viceversa. In futuro si tornerà al mondo di prima — senza accordo e con i dazi — solo se uno o più parlamenti nei 28 Paesi della Ue (Londra esclusa) rifiutasse di approvare.
L’Italia è tra i maggiori beneficiari di questa entrata in vigore anticipata: le esportazioni del «made in Italy» in Canada sono già aumentate di circa l’8% rispetto allo stesso momento del 2017. Se la stessa tendenza si confermasse nei prossimi mesi, in un anno il fatturato delle imprese italiane salirebbe di circa 400 milioni di euro; in sostanza, questo significa almeno ottomila posti di lavoro in più.
Dall’inizio, questo era uno degli effetti prevedibili dell’intesa Europa-Canada. Il «made in Italy» vende ogni anno all’economia nord-americana prodotti per circa cinque miliardi di euro, registrando un surplus commerciale bilaterale di più di tre miliardi. Stravince negli scambi con una delle economie più avanzate al mondo. Con il Ceta in vigore questa posizione di vantaggio ha iniziato a rafforzarsi: sono spariti dazi fino al 9% sull’export verso il Canada di macchinari e equipaggiamenti elettrici per un miliardo di euro (con in più una netta semplificazione delle procedure burocratiche); sono state cancellate tariffe fino al 9,5% alla vendita di auto e veicoli fatti in Italia, per un giro d’affari da circa 300 milioni. E così per i 260 milioni di fatturato della moda (niente più dazi fino al 18%), per i 160 delle ceramiche (niente dazi fino all’8%), per i 133 milioni di fatturato dei costruttori di barche e navi, e via elencando.
Il problema, uno dei principali, riguarda i formaggi: circa 50 milioni di fatturato l’anno in Canada per produttori, peraltro eccellenti, di asiago, fontina o gorgonzola. Appunto, lo zero-virgola-91-per-cento dei fatturati dell’Italia in Canada. Anche per loro il governo di Ottawa ha fatto concessioni: fra i 149 alimenti europei da ora più protetti grazie alla denominazione d’origine (di cui 39 italiani) figurano vari pecorini, mozzarella di bufala, grana padano e parmigiano reggiano, gorgonzola, asiago, fontina, taleggio e provolone; prima, nessuno di questi marchi era riconosciuto in nessun modo. Anche le quote sulle quantità di alimenti libere dai dazi diventano più elastiche. Westland, un antico marchio di formaggi olandesi, ha applaudito all’accordo.
Coldiretti, uno dei sindacati agricoli d’Italia, non la vede così. Ha convinto il governo che l’intesa con Ottawa va fatta saltare, anche se grazie ad essa il «prosciutto di Parma» otterrà tutele prima impossibili. Secondo Coldiretti, la difesa dei nomi di origine non è blindata (prima però non esisteva) e i canadesi continueranno a vendere «parmesan». Malvisto poi anche il fatto che il Canada possa continuare a vendere il proprio grano duro, come fa già, ai produttori italiani di pasta. Poco importa, anche qui, che la produzione nazionale di grano copra appena due terzi del fabbisogno dei pastai e che l’Italia, grazie a spaghetti e maccheroni, fatturi in Canada oltre il triplo di quanto paghi per importare dal Nord America la materia prima.
È sulla base di questi argomenti che il governo si è convinto: l’accordo con Ottawa va fatto saltare in blocco, anche a costo di tornare alle condizioni peggiori di prima. Si scrive Ceta, ma si legge Italia profonda. Basta un pugno di voti, e la protesta di pochi organizzati può sempre umiliare l’interesse di tutti.