Klaas Knot conosce bene l’Italia e le sue contraddizioni perché è uno dei ragazzi del dormitorio. Viveva lì quando studiava a Pavia, insieme ai meridionali fuori sede. «I settentrionali abitavano in zona con i genitori e nel weekend mi invitavano nelle loro seconde case in montagna o al mare, pensavano fosse durissima lì in dormitorio. In realtà non era male».
Knot, oggi che lei è governatore della Banca d’Olanda, l’Italia la preoccupa?
«Siete un’economia dai molti volti diversi. Ci sono problemi nel settore pubblico, ma il Paese ha anche molta ricchezza privata. Nel G7, con il Giappone l’Italia è il Paese nel quale la ricchezza privata è più alta che in ogni altro Paese».
Il totale del debito di famiglie, imprese non finanziarie e Stato è sotto la media dell’area-euro…
«Esattamente!»
Sta dicendo che una tassa patrimoniale sarebbe la soluzione?
«La soluzione spetta ai politici italiani. Sto dicendo che in Italia c’è qualcosa che somiglia a un problema di redistribuzione interna, dato che c’è un debito pubblico così alto e una ricchezza privata che anch’essa è molto elevata. E certo, assolutamente, una tassa patrimoniale. Sarebbe una soluzione standard da libro di testo. Ora, le patrimoniali presentano anche svantaggi di arbitraggio e evasione e io non conosco l’economia italiana così bene da poter dire come funzionerebbe e quali sarebbero le conseguenze negative. Dunque evito di consigliare qualunque cosa, non è il mio ruolo».
Ma davvero un debito pubblico alto è un problema in un Paese con un debito complessivo, incluso quello privato, non così grande?
«Il debito pubblico è una preoccupazione, sì. Ma una preoccupazione del tutto particolare è la bassa crescita. Di rado succede che il debito pubblico sia ritirato riducendone l’ammontare i termini nominali. È sempre ridotto permettendo all’economia di crescere, in modo che quello cali in proporzione al prodotto interno lordo. E il problema dell’Italia è che da vent’anni ha una crescita della produttività stagnante o nulla, il reddito per abitante in termini reali è ancora a livelli simili di quando entrò nell’euro. Praticamente non c’è stata crescita. E il debito sta salendo. Nelle ultime previsioni della Commissione va su, non giù. Questo mi preoccupa, perché dal punto di vista di un banchiere centrale la cosa che temiamo di più è la dominanza dei problemi di bilancio».
La “fiscal dominance”, di cui lei parla, è quando il debito è così alto che la banca centrale finisce per operare solo per evitarne il default e non per seguire il suo obiettivo di inflazione. Siamo a quel punto?
«No. Non sto dicendo che siamo neanche vicini alla fiscal dominance. Ma se il debito pubblico continua a salire, noi ne abbiamo già una certa quantità nel nostro bilancio perlopiù attraverso la Banca d’Italia (dopo gli interventi di “quantitative easing” fra il 2015 e il 2018, ndr), allora certo che questo ci preoccupa. Ed è per questo che abbiamo regole di bilancio in Europa».
Alcuni dicono che andrebbero riviste…
«Si possono criticare, non sono perfette. Sono il primo a dirlo. Magari si può discutere se il 60% rispetto al Pil sia esattamente la soglia giusta sul debito o no. Ma comunque fra 60% e 130% lo scarto è semplicemente troppo grande per dire: non vi preoccupate. Qualunque economista sarebbe d’accordo nel dire che 130% è un problema e, se sale, ancora di più».
Crede che qualche forma di ristrutturazione gestita del debito, come propongo il governo olandese e altri, sia la risposta giusta se l’Italia torna in difficoltà sui mercati?
«Ci sono due fonti di vincoli sulla finanza pubblica. La prima è il nostro sistema istituzionale con il Patto di stabilità e crescita, nel quale il Paesi cercano di darsi una disciplina da sé e gli uni con gli altri. Ma esso presenta un rischio morale (moral hazard), cioè invita a comportamenti opportunistici, e mette di fronte a decisioni politiche complicate. Guardi come ha operato il Patto. È molto difficile per la Commissione e per i Paesi essere veramente rigidi con gli altri. Le multe non sono mai scattate».
L’altro vincolo qual è?
«La disciplina di mercato. Il governo olandese propone di lasciarle un po’ più di spazio, se un Paese persegue politiche che per i mercati non sono sostenibili e lo spread sale perché gli investitori capiscono che c’è un serio rischio che il debito non sia rimborsato in pieno a causa di politiche sbagliate».
Ma poi non si creano profezie auto-avveranti? Il mercato teme un default e a quel punto parte una fuga di capitali e porta a una crisi che sarebbe stata evitabile se si fossero rassicurati gli investitori.
«Certo, questo è una delle controindicazioni. Non dico che una ristrutturazione del debito in un’unione monetaria sia una passeggiata, niente affatto. Possono esserci vari effetti di contagio e molte ragioni per non arrivare a quello. Ma almeno teniamo aperta la possibilità, siamo un po’ meno apodittici nel dire che un default non accadrà mai. Credo sia questa la filosofia di fondo del mio governo».
Il whatever it takes fu la promessa di Mario Draghi di fare “qualunque cosa” per preservare l’euro. Varrà anche quando Draghi non sarà più alla guida della Banca centrale europea dal primo novembre?
«Quella dichiarazione preparò l’Omt, le Outright Monetary Transactions della Bce, un programma approvato dal consiglio direttivo.È uno strumento della banca centrale e resta disponibile per qualunque futuro presidente. La dichiarazione accettava che se possono esserci attacchi speculativi che si auto-alimentano su singoli Stati, la Bce ha la responsabilità di fare quanto può per preservare l’integrità della moneta unica. Il programma implica un equilibrio, però. Non attiva solo gli interventi della banca centrale: il Paese coinvolto deve riaggiustare le sue politiche e c’è un programma».
«Mi pare che le difficoltà del Paese abbiamo a che fare più che altro con la globalizzazione e il cambiamento tecnologico. Non hanno niente a che fare con l’euro, trovo. L’Italia avrebbe avuto queste difficoltà con qualunque regime monetario avesse scelto. Le divergenze (da altri Paesi europei, ndr) hanno a che fare con la velocità diversa con la quale l’Italia ha scelto di adeguarsi alle rivoluzioni tecnologiche e all’impatto della globalizzazione. Quegli shock ci hanno investiti tutti, ma credo che la reazione dei vari Paesi sia stata differente».