Negli ultimi dodici mesi sono sbarcati in Italia 52 mila stranieri e, comprensibilmente, l’intero sistema politico ha dedicato loro un’attenzione ossessiva. Nel frattempo nel 2017 i flussi migratori continuavano anche in altre direzioni. Nella sola Germania si sono trasferiti 65 mila italiani — un record e un numero del 25% più grande di quello degli sbarchi degli ultimi dodici mesi — eppure per loro si fatica a trovare una sola parola spesa da maggioranza o opposizione. Del resto i politici non sembrano accorgersi neppure che gli italiani emigrati in Gran Bretagna nell’ultimo anno sono tanti quanti i rifugiati sbarcati qui, o dei 22 mila andati in Spagna.
Un tale strabismo in chi governa è spiazzante, ma resta un problema di più. Al Corriere lo abbiamo mostrato con l’inchiesta sulla diaspora intellettuale italiana. Dovunque arrivino, i nostri connazionali si rendono conto di essere fra i più preparati. Solo che sono dovuti andare via per dimostrarlo e questo fenomeno nasconde rischi politici: 50 mila laureati che lasciano l’Italia ogni anno sono stati oggetto di otto miliardi di investimenti pubblici per arrivare al titolo di studio e altri sette delle famiglie. Realizzeranno questa ricchezza altrove, spesso solo perché in Italia l’investimento pubblico in ricerca è appena un quarto dei 100 miliardi della Germania e la metà della Francia.
Queste politiche italiane sono lungimiranti come investire sulle sementi ma risparmiare sulla raccolta, lasciando che altri colgano i frutti migliori. Magari fra non molto ci sarà chi propone il ritorno all’autarchia, già praticata dall’Ungheria di Viktor Orbán: impedire ai giovani di andare via «perché abbiamo investito molto per loro». La soluzione è un’altra: aprire più spazi ai giovani istruiti, anche non italiani, quindi investire di più in ricerca. Non solo sulle sementi.