Il Paese che si avvia alle prossime elezioni si presenta, come in passato, scettico. Nei confronti delle istituzioni e della politica. Ma non rassegnato. Gli italiani: appaiono diffidenti. Verso gli altri e, in fondo, anche verso se stessi. Ma non rinunciano a credere nella possibilità di cambiare. Nel futuro. Anche se mostrano delusione nei confronti del passato. O, forse, proprio per questo. Perché sperano che il domani sarà migliore. E cercano di muoversi in questa direzione. Mi pare il segno tracciato dal Rapporto: Gli Italiani e lo Stato. Curato da Demos (perRepubblica) ormai da vent’anni.
Se non si trattasse di una formula politica utilizzata tradizionalmente con significato diverso, parlerei di una “sfiducia costruttiva”. Che spinge gli italiani a osservare gli interlocutori pubblici intorno a loro con prudenza e, come ho già detto, con diverso grado di diffidenza. Molto alto per quel che riguarda i partiti, ma anche il Parlamento. Il luogo dove i partiti, meglio: i loro eletti, esercitano compiti e poteri di rappresentanza. Tuttavia, è basso anche il grado di fiducia di cui dispone lo Stato: meno del 20%. Pressoché come l’anno scorso. Ma 11 punti in meno di dieci anni fa. Solo l’Unione Europea mostra una perdita di credito più elevata: 18 punti in meno. E riscuote fiducia presso non più di 3 italiani su 10.
Appare, dunque, sempre più distante. Sempre più indifferente ai problemi e alle domande dei cittadini. Ma in Italia non sembrano esistere istituzioni “vicine” ai cittadini.
Gli stessi Comuni sono, infatti, osservati con crescente distacco. Resistono solo il Papa, meglio: Papa Francesco. E le Forze dell’ordine. Entrambi segnali della ricerca di sicurezza. E di “fede”, principio (e radice semantica) della “fiducia”.
Il XX Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, curato da Demos, delinea così il profilo di “un Paese senza”. Fiducia. Nelle istituzioni ma anche negli altri.
Un Paese di persone “sole”. Un Paese senza politica. E lo sapevamo. E senza Stato. Come si continua a dire. Sperando che non sia vero. Non per caso Sabino Cassese, in un saggio di alcuni anni fa, ha definito “L’Italia: una società senza Stato”.
D’altronde, anche l’orientamento verso i servizi alimenta il disincanto pubblico. Tanto che quasi metà dei cittadini (48%) considera, se non lecito, certamente giustificabile “evadere le tasse”. Dal disamore pubblico e dal distacco verso le istituzioni emergono segnali inquietanti per la democrazia. Almeno: per la democrazia “rappresentativa”. Oggi, quasi metà dei cittadini pensa che i partiti non servano. Che la democrazia possa farne a meno. Perché i partiti e i politici sono corrotti. Quanto e anche più che ai tempi di “Tangentopoli”. E se una larga maggioranza di italiani (62%) crede ancora che la democrazia sia preferibile a ogni altra forma di governo, si tratta comunque di una componente in calo costante. Rispetto a dieci anni fa: 10 punti in meno. Così non sorprende, ma preoccupa anche di più, che quasi 2 italiani su 3 ritengano che oggi il Paese dovrebbe essere guidato da un “uomo forte”. Un sentimento comprensibile, vista la sfiducia verso le istituzioni pubbliche e verso i soggetti politici. Eppure, a maggior ragione, inquietante. Tanto più se ci voltiamo indietro. A ripercorrere la nostra storia. A riflettere sul nostro passato.
Tuttavia, questo “Paese senza” non ha perduto la speranza.
Non solo perché torna a guardare con un certo ottimismo al futuro prossimo, visto che quasi 4 italiani su 10 pensano che l’anno appena cominciato sarà migliore di quello appena finito. E solo il 16% lo immagina peggiore. Ma soprattutto perché questo “Paese senza” istituzioni, questa “società senza Stato”: sembra in grado di reagire alla delusione. Alla sfiducia. Non ha rinunciato all’idea che sia possibile cambiare. Non ha rinunciato all’impegno. E manifesta, dunque, una partecipazione elevata, rispetto agli ultimi anni. Condotta non solo per via digitale, ma anche, ancor più, sociale e politica.
Non per caso anche gli indici di fiducia nelle associazioni sindacali e di categoria riprendono a crescere, dopo alcuni anni. Perché la partecipazione genera fiducia.
Nei confronti delle istituzioni, ma anche “verso gli altri”. In entrambi i casi, i livelli di “confidenza”, cioè: di “fiducia”, crescono sensibilmente fra coloro che mostrano indici di partecipazione più elevati.
Perché l’impegno, la stessa protesta, sono esperienze che facciamo “insieme agli altri”.
Con gli altri. Soprattutto quando si svolgono nella società, nelle città, nei luoghi pubblici. Senza limitarsi a frequentare la rete. Dove siamo sempre in contatto con gli altri.
Ma da soli. Noi davanti al nostro tablet, al nostro pc, al nostro smartphone.
Così mi rassicura il fatto che, in questo XX Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, gli indici di partecipazione sociale tendano ad aumentare sensibilmente fra i più giovani. Nonostante esprimano scarsa soddisfazione verso il sistema pubblico e verso lo Stato. Non per caso Umberto Galimberti (in un libro appena pubblicato da Feltrinelli) ha parlato di “generazione del nichilismo attivo”. Perché è delusa, ma non rassegnata. Significa che c’è motivo di credere. Che questa “società senza Stato” non abbia perduto la speranza. Nel futuro. E in se stessa.