Chi l’avrebbe mai detto. Germania e Italia sono unite da un destino comune: il rischio di recessione. Le manifatture più grandi del continente non danno segni di ripresa, trascinano al ribasso l’intera area dell’euro e Mario Draghi è costretto suo malgrado a riaprire i rubinetti della politica monetaria. Ieri l’indice che misura lo stato di salute dell’economia tedesca è sceso dal 45 al 43,1 per cento, peggio delle stime più nefaste, ben al di sotto di quota 50, il valore sotto al quale quell’indice misura una contrazione delle attività d’impresa. È l’ironia beffarda della storia. Quando il governatore della Banca centrale europea si insediò al penultimo piano del grattacielo di Francoforte, l’Italia cresceva ad un ritmo otto volte inferiore alla Germania, allora in boom dopo la grande crisi del 2008. Quest’anno il nostro prodotto interno lordo si fermerà ad uno striminzito +0,1 per cento (fra i peggiori del globo) mentre quello tedesco – a meno di un’ulteriore calo – segnerà +0,5, giusto un gradino sopra l’Italia. Numeri che confermano la tesi per cui le politiche espansive di Francoforte non avvantaggiano l’economia più grande, né quella più indebitata, semmai le più dinamiche.
Draghi avrebbe voluto terminare la parabola di salvatore dell’Europa con un aumento dei tassi, a dimostrazione di un continente ormai fuori dalle secche, e invece le ultime previsioni dicono che nel terzo trimestre l’Unione nel suo complesso sarà poco sopra lo zero. In realtà l’Europa cammina a due velocità. Ad andare meglio oggi sono i Paesi più competitivi (Polonia e Ungheria su tutti) e quelli che otto anni fa erano parte della famiglia dei Piigs: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna. Al governatore italiano non resta che prenderne atto e insistere sulla strada fin qui scelta. Per lui quella di oggi è la terzultima riunione del consiglio dei diciannove colleghi europei prima di passare la mano alla francese Christine Lagarde. Draghi dovrà fare come al solito la sintesi delle opinioni, ma la linea è decisa.
La Bce ritoccherà il proprio obiettivo di inflazione fin sopra al due per cento (oggi è «sotto o vicino»), in modo tale da giustificare l’ennesima manovra a sostegno della ripresa dei prezzi e dell’economia. Il momento degli annunci sarà a settembre, quando saranno disponibili le nuove previsioni degli esperti sul resto dell’anno. Non solo: a meno di sorprese dell’ultim’ora, Draghi vuole che ad aprire la strada di una nuova riduzione dei tassi sia la Federal Reserve americana, probabilmente la prossima settimana. Oggi arriverà comunque l’annuncio di un imminente cambiamento di rotta. Invece di procedere con una stretta, ci potrebbe essere un’altra riduzione dei tassi negativi e – forse già a settembre – persino una riapertura del piano di acquisto di titoli pubblici e privati, la misura che più di ogni altra ha spinto la crescita degli ultimi tre anni.
Tutto ciò è un’ottima notizia per chi fa impresa, pessima per le banche: da anni soffrono i tassi zero che impediscono di lucrare attraverso i canali tradizionali. In sé è l’occasione per spingerle a innovarsi, in ogni caso un grosso rischio per un sistema che nel continente è complessivamente debole: basti dire che la capitalizzazione di borsa delle prime dieci banche europee vale quanto quella della più grande delle americane, Jp Morgan Chase. Solo Deutsche Bank e Unicredit – due fra quelle dieci – hanno annunciato in pochi giorni quasi trentamila licenziamenti. Fra aprile e giugno il gigante tedesco – la più grande di tutte – ha avuto perdite per oltre tre miliardi di euro: nello stesso periodo dell’anno scorso era in utile. Una delle questioni tecniche più dibattute in questo momento alla Bce è proprio questa: come continuare a penalizzare i depositi di denaro nei suoi caveau senza uccidere un settore in sofferenza. Di solito le crisi, le più gravi, si innescano proprio lì.