C’è una battaglia in corso per conquistare l’anima dell’Europa. Ovvero per definire, per dirla con Jacques Delors, il senso della missione o la finalità del processo di integrazione. Dopo un decennio di crisi multiple l’Europa si ritrova divisa come mai era avvenuto nel suo passato post-bellico. Da un lato ci sono i governi europeisti, come la Francia di Macron o la Germania della coalizione tra i due maggiori partiti europeisti che si è deciso finalmente di ricostituire. Dall’altro lato ci sono i governi sovranisti dell’Est e del centro dell’Europa che hanno rielaborato la loro strategia anti-europeista adattandola alle nuove condizioni post-Brexit. In questa battaglia si giocano i destini dell’Europa ma anche degli stati che la costituiscono.
Cominciamo dai sovranisti. Brexit non è diventato il modello da seguire per coloro che contrastano l’obiettivo di una «unione sempre più stretta» (come recita il Preambolo dei Trattati che costituiscono le basi legali dell’Unione europea o Ue). Gli oppositori di quella finalità hanno deciso di contrastare l’Ue dall’interno, per necessità più che per scelta, e non già uscendone. Non si presentano come anti-europeisti (visione con cui si definisce invece il leader inglese Nigel Farage), ma piuttosto come sovranisti. Infatti, proprio l’esperienza britannica del dopo-Brexit sta mostrando la drammatica difficoltà, per uno Stato membro dell’Ue, a ritornare alla sua vecchia condizione di Stato nazionale. Tale scelta è impossibile per Paesi (come buona parte di quelli dell’Est europeo) che abbisognano delle risorse e della protezione che provengono dai Paesi dell’Ovest europeo. Ed è (ancora di più) impossibile per quei Paesi dell’Eurozona che volessero districarsi da quest’ultima. Non può stupire che il candidato premier dei nostri Cinque Stelle sia stato costretto a riconoscere che un referendum per uscire dall’Eurozona non è praticabile, seppur motivando il suo ennesimo cambiamento di rotta con motivazioni risibili (quale l’indebolimento dell’asse franco-tedesco, figuriamoci).
La presa d’atto delle difficoltà ad uscire dall’Ue o dall’Eurozona non cambia tuttavia l’obiettivo del sovranismo, cioè svuotare il progetto di integrazione. Ad esempio, i Paesi dell’Est rivendicano con orgoglio il loro costituzionalismo illiberale, nonostante la sua palese inconciliabilità con i principi democratici che sono alla base dell’Ue. Non solo, agendo come un blocco politico, sono anche in grado di difendere le loro scelte. Nella conferenza di giovedì scorso, il primo ministro bulgaro Boyko Borissov ha detto che il Consiglio che lui presiede (per il primo semestre del 2018) non prenderà nessun provvedimento contro la Polonia. Oppure, con il sostegno degli altri Paesi sovranisti, la Polonia ha minacciato di usare il proprio veto nelle varie arene decisionali europee, qualora l’Ue decidesse di tagliarle i fondi strutturali (per spingerla a cancellare le leggi illiberali approvate). Attraverso i loro veti e minacce, i sovranisti mirano a trasformare l’Ue in un’organizzazione di cooperazione economica (conciliabile con la coesistenza al suo interno di democrazie illiberali e liberali) e la stessa Eurozona in una sorta (per dirla con Fritz Scharpf) di European Exchange Rate Mechanism (conciliabile con la coesistenza al suo interno di un’Eurozona forte e di una debole).
Nell’altro versante del campo di battaglia ci sono invece i governi europeisti. Anch’essi hanno visioni diverse, pur riconoscendosi nell’obiettivo dell’“unione sempre più stretta”. Si tratta di diversità sia sul modello istituzionale che sulle policy da perseguire. La prospettiva istituzionale oggi in campo è quella avanzata con forza da Emmanuel Macron, con la sua proposta di costruire «un’Europa sovrana, unita e democratica». Il nuovo governo tedesco avrà non poche difficoltà ad aderire a quella prospettiva, anche se la presenza del partito socialdemocratico renderà la sua posizione più costruttiva e dialogante. La prospettiva di policy ancora in campo è invece quella tedesca, con la sua enfasi sulla stabilità fiscale e il controllo centralizzato delle politiche di bilancio nazionali, anche se l’assenza di Wolfgang Schäuble renderà meno ortodossa quella prospettiva. Al di là delle intenzioni delle rispettive leadership, il confronto tra i governi francese e tedesco tenderà inevitabilmente a racchiudere il futuro dell’Europa nel perimetro delle rispettive visioni e interessi nazionali.
Certamente questi ultimi non sono rigidi, come è dimostrato dal fatto che, rispetto al passato recente, la Francia di Macron appare più sovranazionale e la Germania di Merkel IV sarà meno intergovernativa. Tuttavia, non si può lasciare la discussione sulle istituzioni e le politiche dell’Europa del futuro solamente a quei due Paesi. Ha fatto dunque bene il nostro premier Gentiloni a promuovere, pochi giorni fa a Roma, il Summit dei Paesi del Sud europeo per delineare una politica comune nei confronti della migrazione che proviene dall’Africa e dal Medio Oriente. E ha fatto altrettanto bene ad accogliere l’invito francese ad elaborare un Trattato di collaborazione sistematica tra i due Paesi entro la fine dell’anno. Nello stesso tempo, però, farebbe un errore, e con lui l’Italia, se accettasse di frantumare il dibattito sul futuro dell’Europa in Trattati bilaterali o trilaterali (raggi di una ruota con la Francia che funziona da mozzo). È interesse dell’Italia multilateralizzare il dibattito, ma soprattutto spingerlo verso una prospettiva comune.
La prospettiva cioè di “un’Europa federale, efficace e democratica”.Federale, perché organizzata secondo una doppia sovranità, quella nazionale e quella sovranazionale. Non si tratta di trasferire la sovranità da un livello (più basso) ad un altro livello (più alto), ma di stabilire su quali politiche l’uno e l’altro livello sono sovrani. Efficace, perché l’Europa deve poter raggiungere i propri obiettivi, quelli che i singoli Paesi non possono raggiungere da soli. Democratica, perché ogni decisione che viene presa ad ogni livello, anche a livello sovranazionale, dovrà riflettere le volontà degli elettori. Un’Europa federale dovrà necessariamente basarsi su una costituzione condivisa; dovrà disporre di un suo budget indipendente con cui perseguire politiche di sviluppo e anti-cicliche; dovrà avere un suo governo democratico in quanto espressione di processi elettorali sovranazionali.
Per i governi europeisti si presenta dunque una doppia sfida. Unirsi per contenere l’influenza sovranista, ma anche aprirsi ad un dibattito interno per definire le istituzioni e le politiche dell’Europa del futuro. In questa battaglia per conquistare l’anima dell’Europa, l’Italia ha un ruolo importante da giocare. La sua capacità coalizionale è indispensabile per aggregare i Paesi non-sovranisti. La sua visione federale è necessaria per ricomporre le divisioni tra due Paesi strutturalmente intergovernativi come la Francia e la Germania. Ma per fare ciò, l’Italia dovrà emergere dalle elezioni del 4 marzo con una coalizione coerentemente europeista. Per questo motivo, occorre che si formi sin da subito un fronte trasversale, politico e culturale, in grado di isolare i nostri sovranisti. Dipenderà anche da noi l’esito della battaglia per l’anima dell’Europa.