Nei suoi Rapporti annuali l’Istat continua a produrre sociologia e così, dopo la riflessione sul mutamento delle classi dello scorso anno, questa volta si è occupata delle reti. Non di quella telematica «diventata pervasiva» ma delle altre: le relazioni tra le persone, le associazioni, le imprese e le istituzioni ovvero l’insieme del tessuto che costituisce il «sottostante» della nostra società. Va detto subito che la ricognizione dell’Istat non arriva a conclusioni disastrose, anzi. Si può dire che negli anni della Grande Crisi sono state proprio queste reti a sorreggere la società, ad evitare che si scucisse del tutto e ne uscissimo travolti. Ovviamente questa considerazione non serve a negare alcune trasformazioni strutturali di carattere negativo che impattano sulle reti, a cominciare dal deficit demografico e dalle disparità territoriali per finire ai mutamenti del mercato del lavoro e alla polarizzazione sociale. Ma gli elementi di tenuta — o di resilienza, come si usa dire — sembrano per ora prevalere.
Le reti di socializzazione, sia quelle familiari tradizionali sia quelle elettive, appaiono larghe e il fenomeno dell’isolamento è sicuramente presente ma in proporzioni che si possono ancora sfidare. In più la tecnologia e i social network, a dispetto delle analisi semplicistiche, non stanno cannibalizzando la frequentazione de visu, anzi in qualche caso la incentivano. La fiducia verso gli altri resta alta.
Se dalle persone passiamo alle imprese le reti risultano protagoniste di una piccola rivoluzione silenziosa. E anche per questo il modello di capitalismo leggero tipico del Nordest è cresciuto nella sua capacità di orientare le scelte produttive dell’economia italiana. Le imprese, se pur faticosamente, si presentano come sistemi aperti alle combinazioni, l’insieme che ne deriva non è però ancora capace di far circolare l’innovazione come invece avviene nel caso tedesco, nostro eterno benchmark. Se estendessimo il metodo utilizzato dall’Istat ai rapporti tra la società italiana e l’estero avremmo poi forse la conferma di un altro grado di apertura molto significativo. Capiremmo forse che non siamo solo europei per via istituzionale o addirittura cogente — come viene adombrato nel dibattito politico odierno — ma lo siamo nella quotidianità delle relazioni e come questo confronto continuo rappresenti uno stimolo.
L’ultima considerazione che lo sforzo dell’Istat ci spinge a fare riguarda il rapporto tra reti e politica. Dal Rapporto abbiamo la conferma che l’impegno e la collaborazione sociale hanno svolto una funzione di supplenza laddove la politica, per i mille motivi che sappiamo, è venuta meno ai suoi doveri di indirizzo e di accompagnamento. Sappiamo anche che i vincitori delle elezioni del 4 marzo amano la Rete ma non impazziscono per le reti, hanno l’idea che possano costituire un diaframma tra loro e la ricerca del consenso. Un’idea sbagliata perché il mutamento sociale ha bisogno di binari che gli assicurino continuità, non basta una diretta Facebook.