C’è anche chi si spinge a monitorare il Baltic Dry Index , l’indicatore del traffico mondiale delle navi portacontainer, per ricavarne l’auspicio dell’economia. Ma senza esagerare nell’arte divinatoria è sufficiente un’occhiata ad uno dei termometri più affidabili sulla salute della manifattura, per farsi una prima (allarmante) idea di che anno ci attende: a dicembre l’indice Pmi dell’Italia è sceso ai minimi degli ultimi sette anni, calando da quota 47,6 di novembre a 46,2. Uno scivolone oltre le aspettative, con gli economisti che avevano stimato l’asticella a quota 47,2.
L’indice Pmi ( Purchasing managers’ index ) è costruito sondando migliaia di direttori acquisti, figura chiave per misurare non solo l’andamento di un’azienda ma anche la situazione dei relativi mercati di approvvigionamento e di vendita. «La produzione si è contratta al livello più veloce degli ultimi sette anni – si legge nel report di IHS/Markit – mentre i nuovi ordini sono diminuiti notevolmente e il tasso di contrazione occupazionale è stato il più veloce da maggio 2013». Insomma, la conferma nei freddi numeri del declino industriale italiano, non bastassero le emergenze più eclatanti (come la siderurgia con il caso Ilva) e gli oltre 150 tavoli di crisi aperti al Mise senza un barlume di soluzione.
Non che altrove vada meglio: l’indice Pmi dell’Eurozona, sempre a dicembre, è sceso a quota 46,3 (46,9 a novembre) e quello tedesco da 43,7 a 44,1, ma in questo caso mal comune non è mezzo gaudio, visto quanto la manifattura italiana dipenda dall’export in Germania. «L’indice Pmi – spiega l’economista Riccardo Gallo, presidente dell’Osservatorio sulle imprese dell’Università La Sapienza – non è allineato ai dati statistici ufficiali di Istat e Bankitalia che ci dicono una cosa diversa: non siamo di fronte a un crollo della produzione, quanto ad un declino lento e ininterrotto. Drammatico, dunque, nella costanza. Le altre manifatture nel mondo vivono invece di sbalzi, in un senso o nell’altro, e forse converrebbe che anche il nostro Paese si agganciasse a certi salti». Secondo Gallo, poi, andrebbe fatta un’analisi settoriale: «Al netto dell’auto e del suo indotto, le cose non vanno così male. Penso ad esempio all’andamento della farmaceutica». Sta di fatto che la Fca, il maggiore gruppo industriale italiano, di fronte alle difficoltà del mercato ha dovuto fondersi con la francese Psa allontanando ulteriormente il cuore dell’azienda dal nostro Paese, mentre l’altro caposaldo della manifattura italiana, l’acciaio dell’Ilva, vive le ore più drammatiche della sua storia. «Proprio l’Ilva – dice la leader Cisl, Anna Maria Furlan – è la cartina di tornasole della mancanza di una vera politica industriale, con l’evidente incapacità di guidare le trasformazioni economiche. Centinaia di migliaia di famiglie vivono una situazione di perenne incertezza e un governo non può limitarsi a fare da “notaio”. Bisogna alzare la produttività e la qualità dei prodotti che hanno bisogno anche della creatività del lavoratore, con strumenti di partecipazione all’innovazione tecnologica e organizzativa ». Più “crudo” lo sguardo sul futuro di Gallo: «Disconosco la strategicità di industrie in perdita strutturale. Siamo un Paese senza materie prime: servirebbe il coraggio di togliere il bavaglio alle imprese più vitali, facendo migrare altrove la produzione di settori in declino, come si è fatto con la petrolchimica. L’assistenzialismo non funziona ». Una ricetta come un’altra, ma anche un drammatico dilemma occupazionale.