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Che Detroit chiami Torino e Torino chiami Detroit è uno dei fil rouge del Novecento. Chi pensava, però, che fosse diventato materiale d’archivio deve far ammenda perché il protagonismo di una rinnovata industria dell’auto non accenna a scemare. E il tweet di ieri [26 febbraio ndR] con il quale Donald Trump ringrazia Fca per il maxi-investimento di 4,5 miliardi di dollari a Detroit lo dimostra. Ma se è possibile che l’ex capitale mondiale dell’auto possa pensare di rilanciarsi, perché Torino no? A porre la domanda è stato sul Corriere di Torino lo storico dell’economia Giuseppe Berta che è in procinto di dare alle stampe proprio un libro su Detroit. «È chiaro che la notizia non può che generare a Torino una riflessione amara. Il Michigan si reindustrializza e il Piemonte cede le armi. Perché non è possibile immaginare un futuro in linea con la specializzazione e la cultura industriale del nostro territorio? La spiegazione secondo la quale non si può perché il ministro è Di Maio e il sindaco è Chiara Appendino non mi basta».
Detroit oltre alla chiusura delle storiche fabbriche dell’auto ha vissuto una sorta di desertificazione sociale, un maxi-fallimento del municipio e devastanti inchieste sulla corruzione dei politici, eppure ha la forza di scommettere ancora. «A Torino invece l’industria sembra non interessare più, ma gli investimenti sulla cultura non sono sufficienti a rilanciarla». Berta non nasconde di avere molte riserve sulla strategia per l’Italia della Fca del dopo-Marchionne. «Si era parlato del polo del lusso imperniato su Maserati e Alfa, ma poi è calato il silenzio, il piano strategico per quest’ultimo marchio prevedeva 400 mila vetture l’anno e invece quest’anno forse non arriveremo a 100 mila. È evidente, e la scelta su Detroit lo dimostra, che Fca è un gruppo americano ma non per questo deve tagliare l’Italia». Dove, per altro, è stato congelato il piano da 5 miliardi di investimenti. È chiaro che il finanziamento su Detroit non poteva essere fatto in Europa perché le vetture sono a immagine e somiglianza di un mercato differenti, il rischio però che taluni vedono è che oltre al montaggio nel Michigan vada a insediarsi l’innovazione che caratterizzerà l’evoluzione dell’auto nei prossimi anni.
Non è di questo avviso Alberto Dal Poz, torinese e presidente di Federmeccanica. «È importante che Fca abbia puntato sul Michigan. I tedeschi hanno scelto altri Stati come Alabama e South Carolina, i coreani invece il Tennessee. Che invece si investa nelle aree di storica specializzazione è positivo perché si sottolinea l’importanza di un ecosistema di competenze. Perciò la svolta del Michigan parla anche del nostro Piemonte». I guai sono altri. «Non siamo preparati ad affrontare lo scenario peggiore della guerra dei dazi. Se Trump decidesse di insistere nelle scelte protezionistiche i colossi tedeschi ne pagherebbero le conseguenze e i nostri fornitori subito dopo. E se la Ue rispondesse con una politica di rappresaglie a pagare saremmo ancora noi, visto che esportiamo le Jeep».
Manca, per Dal Poz, una riflessione di sistema per individuare le contromisure, a Roma ma soprattutto a Bruxelles. Quanto alla possibilità che Detroit risucchi il nuovo, il presidente di Federmeccanica non crede che Fca possa prevedere un unico centro di sviluppo delle future piattaforme. L’innovazione sarà distribuita e vicina ai mercati, «e infatti General Motors di poli ne ha tre: negli Usa, in Europa e in Cina».
Le notizie che arrivano da Detroit, infine, non preoccupano minimamente Marco Bentivogli, segretario generale Fim-Cisl. «Si tratta di scelte già previste nel piano che Marchionne ci illustrò lo scorso giugno a Balocco. Verranno prodotte vetture che per dimensioni possono essere vendute solo sui mercati americani e quindi non ci sono sovrapposizioni con l’Italia». E il sindacalista sostiene anche che gli impianti del Michigan andavano rinnovati perché «sono tecnologicamente dieci anni indietro rispetto a Pomigliano».
*Corriere della Sera, 27 febbraio 2019